Dal Rijksmuseum di Amsterdam al Metropolitan di New York migliaia di capolavori sono liberamente condivisibili. Noi invece cerchiamo ancora di far pagare dei diritti. Ma al tempo di Instagram, lasciar pubblicare è la più potente forma di promozione

Chi sia stato di recente in un museo pubblico italiano avrà notato che è possibile scattare foto a patto di non usare il flash. Sembra un gesto banale, eppure fino al 2014 era spesso vietato. Tuttavia le foto di dipinti e sculture sono ammesse solo per uso privato: se uno vuole inserirle in un libro o stamparle su una maglietta (e magari venderla), deve farne richiesta al museo o alla soprintendenza e pagare un canone, anche se quell’opera è di pubblico dominio (cioè se sono scaduti i diritti d’autore) e anche se si tratta di un monumento in mezzo alla strada, come il Colosseo. Insomma, le foto sono libere, ma a patto che restino nei nostri smartphone o su Facebook.

 

L’articolo 108 del Codice dei beni culturali riconosce infatti ai musei alcuni diritti speciali sulle opere in collezione, che si concretizzano in una sorta di diritto d’autore illimitato nel tempo. E dunque, mentre si può mettere una poesia di Leopardi su una maglietta (e venderla) senza nessuna autorizzazione, lo stesso non accade con quadri e monumenti. Normale, si dirà: in fondo dipinti e sculture sono oggetti fisici e richiedono una manutenzione di cui la poesia di Leopardi non ha bisogno. Sembra dunque sensato finanziare restauri e conservazione anche con gli introiti dell’uso delle immagini. Ma sarà vero? In realtà la questione è scivolosa e non è detto che ci sia un reale vantaggio per i musei, per la cultura e, forse, nemmeno per i cittadini. Ma andiamo per ordine.

 

Nel 2012, con un gesto senza precedenti, il Rijksmuseum di Amsterdam ha reso libera la sua collezione che vanta decine di capolavori, tra cui Rembrandt e Vermeer: da quel momento è stato possibile scaricare foto in alta risoluzione dal sito del museo che ha invitato gli utenti a condividere le creazioni che nascevano dal loro riuso (poster, magliette, collage, perfino brand commerciali). La Galleria Nazionale di Danimarca ne ha fatto perfino uno slogan: “It’s your cultural heritage. Use it!” (È il tuo patrimonio culturale. Usalo!).

 

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Nel giro di pochi anni altri importanti musei hanno seguito l’esempio: dal Metropolitan di New York alla National Gallery di Washington, dal Mauritshuis de L’Aia al Belvedere di Vienna. Al momento sono quasi 800 i musei, le gallerie e le biblioteche che hanno sposato una politica open access (a libero accesso, appunto). Ora, è chiaro che non si tratta di gesti avventati: le istituzioni hanno ponderato bene costi e benefici. Da una parte si è preso atto che il mondo è cambiato e che nell’epoca di internet la circolazione delle immagini è inarrestabile, dall’altra ci si è resi conto che la politica open access è uno strumento di promozione indiretto (e straordinario): invece di spendere soldi in campagne pubblicitarie, meglio che tutti usino le immagini come vogliono, moltiplicandone la visibilità e la conoscenza. In fondo il pubblico cerca nei musei quello che conosce di più, pensiamo al caso “Gioconda”: un secolo fa era un quadro fra tanti, poi il suo furto, ampiamente documentato sui giornali, ne ha fatto un caso mediatico trasformandola in icona, nonché principale attrattiva del Louvre. La sfida, ovviamente, non è tanto riempire i musei di turisti, quanto rendere le istituzioni luoghi vivi e partecipati.

 

Intanto una direttiva europea ha dato alla questione un indirizzo definito, si tratta dell’articolo 14 del 2019 sul diritto d’autore nel mercato digitale. In breve: gli Stati membri dovranno riconoscere che la riproduzione fotografica di opere di pubblico dominio non è soggetta né a diritto d’autore né a diritti connessi. E qui cominciano i problemi, visto che, secondo alcuni commentatori, la direttiva sarebbe in conflitto con il nostro codice dei beni culturali.

 

Per capirci di più ho provato a parlarne con Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino; con Paolo Giulierini, direttore del Museo Archeologico di Napoli; e con Gabriel Zuchtriegel, appena nominato direttore del Parco Archeologico di Pompei.

 

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A questo proposito il caso del Museo Egizio è significativo: è la prima (e quasi unica) istituzione in Italia ad aver reso liberamente riutilizzabili le immagini scaricabili dal proprio sito (anche per scopi commerciali) e ciò è stato possibile perché il museo è gestito da una fondazione in un felice connubio di pubblico e privato. Certo, c’è dietro una precisa idea culturale, non è senza significato che Greco si sia formato proprio al Rijksmuseum: «Le opere non sono una proprietà, noi siamo anzitutto dei custodi», dice. «Il nostro compito è preservarle materialmente ma anche fare ricerca e disseminare la conoscenza, in quest’ottica diffondere il patrimonio iconografico nel modo più agile possibile è fondamentale».

 

«Tuttavia al momento dobbiamo seguire quanto dice il legislatore», commenta Zuchtriegel. «Non tutti i direttori possono fare come vogliono, una legge c’è e va seguita, ma pare chiaro che una politica di apertura sia auspicabile. È anzitutto una questione etica: se il patrimonio è pubblico dovrebbe esserlo fino in fondo».
Veniamo dunque agli aspetti pratici che riguardano, tra l’altro, l’obiezione che più spesso viene mossa alle politiche open: se le immagini diventano libere non ci sarà un danno erariale?

 

«Non è così», dice Giulierini. «Anzi. Sa qual è l’introito del Museo Archeologico di Napoli per l’uso delle immagini da parte di privati? Circa 22 mila euro annui. Siamo in perdita se si considera che a gestire le pratiche d’ufficio ci sono due persone assunte a tempo pieno». Il Museo Archeologico di Napoli è tra l’altro detentore di un primato: il 75 per cento dei prestiti di opere dirette a mostre e a altri musei proviene da qui, con un incasso intorno ai 500 mila euro annui, una cifra, questa, ben più significativa.

 

«Il vero danno erariale si verifica con lo stato attuale delle cose», aggiunge Greco. «Proporre immagini libere significa scaricare il museo di enormi incombenze, visto che gli introiti non giustificano le risorse umane che impieghiamo e che potrebbero essere rivolte a altri compiti, anche di ricerca».

 

«La verità», continua Giulierini, «è che il 90 per cento del flusso delle immagini sfugge al nostro controllo. L’altro giorno in farmacia ho trovato un collirio francese che aveva sulla confezione il dipinto di Flora della nostra collezione. Ecco, non abbiamo modo di verificare se all’estero le nostre opere sono usate in modo illecito, per farlo servirebbe l’Interpol. E anche quando ce ne accorgessimo un’eventuale azione legale costerebbe più di quanto andremmo a recuperare. E per cosa poi? La battaglia è un’altra: i musei devono essere al servizio della comunità».

 

A questo punto pare chiaro che il nodo della faccenda sia cosa si fa con queste immagini, ossia se chi le usa agisce a scopo di lucro o meno. Eppure, almeno nel caso dell’editoria, parlare di lucro non è semplicissimo. Pensiamo alle pubblicazioni d’arte: saggi, manuali, monografie sono di certo opere in vendita ma non per questo sono semplici merci: sono strumenti di studio, di conoscenza, di allargamento culturale. I libri sono pubblicati anche a fini di lucro, ma questo “anche” è cruciale.

 

Del resto basta guardare le classifiche: se un editore puntasse esclusivamente al guadagno proporrebbe solo libri gialli e manuali di cucina, oggi in Italia pubblicare libri d’arte è complicato non tanto per i costi quanto per la burocrazia che comporta; e, del resto, la spesa iconografica (come tutti i costi di gestione) finisce sul prezzo di copertina, quindi alla fine a pagare sono i lettori. Un aspetto tanto più delicato se pensiamo all’editoria scolastica: se il “noleggio” delle foto dei beni culturali venisse cancellato un manuale di educazione artistica potrebbe costare qualche euro di meno.

 

La distinzione lucro/non-lucro rischia poi di penalizzare le pubblicazioni scientifiche: sopra le 2000 copie occorre fare richiesta (talvolta in carta bollata) e pagare un canone per ogni foto pubblicata, e al tempo stesso accade che si perdano finanziamenti per progetti di ricerca nel campo delle digital humanities che richiedono sempre più spesso la pubblicazione di dati (comprese le immagini) in formato aperto e riutilizzabile. «In realtà si teme la mercificazione ma non si considera che chiedendo quel balzello è lo Stato a farsi mercante, lucrando sullo sfruttamento dei beni culturali», a parlare è Giuliano Volpe, presidente emerito del Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici del MiC da anni impegnato in una battaglia per il libero riuso delle immagini.

 

Ben più esplicito il giudizio di Daniele Manacorda, docente per trent’anni di Metodologia e tecnica della ricerca archeologica: «Le norme attuali costituiscono una espropriazione dei diritti del cittadino: non si capisce perché, se un bene è di pubblico dominio, non debbano essere tali anche le sue riproduzioni. Così si rischia solo di allargare quel solco tra Amministrazione e società che è uno dei mali storici della nazione italiana».

 

E qui si apre un secondo problema, che è di tipo morale. Se le immagini diventano libere dovranno esserlo per tutti, non solo per gli editori. E come controllare il decoro e gli usi offensivi da parte di imprenditori spregiudicati? Un esempio recente è quello della pubblicità di un fabbricante d’armi che mostra il David di Michelangelo che impugna un fucile. Invenzione senza dubbio di pessimo gusto – come ha tuonato il ministro Franceschini –, nondimeno nell’epoca dei social network i buoi sono già scappati e chiudere la stalla forse non serve più: internet già abbonda di usi irrispettosi contro cui non si può fare nulla. Inoltre, se il fabbricante d’armi avesse usato un disegno molto realistico del David, avrebbe aggirato l’ostacolo con facilità, visto che il codice dei Beni culturali tutela la “foto” dell’opera e non un suo disegno (magari fotorealistico) che invece è da considerarsi opera nuova e autonoma.

 

Il tema è di grande attualità non ultimo perché lo stato di pandemia e l’impiego sempre più diffuso di strumenti digitali ha costretto a ripensare molti paradigmi consolidati: da poco il Ministero della Cultura ha una istituito una “Digital Library” centrale e, nell’ambito del Recovery Fund, imponenti investimenti sono destinati alla digitalizzazione del patrimonio culturale. Sempre Giulierini racconta che per il Museo archeologico di Napoli sono previsti due milioni di euro che verranno investiti proprio in questa direzione.

 

Una cosa è certa: la discussione è aperta. «Non ci troviamo di fronte al capriccio di un manipolo di imprenditori che vogliono lucrare sul patrimonio, siamo di fronte a un movimento culturale ampio e sovranazionale», commenta Mirco Modolo, che da anni studia il tema dell’immagine del bene culturale: «Nel 2010 Europeana, la piattaforma del patrimonio culturale digitale, ha pubblicato uno statuto nel quale si chiede di rimuovere ogni limitazione al riuso delle immagini di opere in pubblico dominio e, nel corso dell’ultimo lockdown nel Regno Unito, alcuni giuristi e storici dell’arte hanno chiesto pubblicamente alle istituzioni di aprirsi al libero riuso».

 

In Italia il dibattito è approdato anche in Commissione Cultura alla Camera dei Deputati, dove, prendendo spunto dalla direttiva europea, è in discussione la proposta di concedere ai singoli direttori di musei, archivi e biblioteche statali la facoltà di rilasciare immagini con licenze aperte. Risultato che potrebbe essere raggiunto per semplice via amministrativa, senza neppure modificare il codice dei beni culturali.

 

È un primo passo. Per questo le posizioni di Giulierini, Greco e Zuchtriegel sono tanto più significative. «Il decoro del patrimonio si ottiene lasciando andare la sua diffusione», precisa Greco. «Più le immagini saranno libere più le collezioni verranno studiate, conosciute, approfondite. Se c’è una cosa che ci ha insegnato la pandemia è che dobbiamo condividere. Questo sì, crea un indotto. L’unico pericolo per i beni culturali è l’oblio». Speriamo che la politica gli dia ascolto.