Parole insolite. Confronti sorprendenti. Paragoni scientifici. E un esplosione di colori. Torna in libreria la “Conversazione con Dante”. Un corpo a corpo tra autore e traduttrice

Serena Vitale, che si definisce “una fattografa”, è una delle maggiori scrittrici italiane, i suoi libri sono stati tradotti in molte lingue. In Italia è pubblicata da Adelphi e Mondadori, chi la legge aspetta da anni il prossimo romanzo. Serena Vitale è - contrariamente all’estetica italiana dell’intellettuale - erudita e comica, adopera acribia e sfottò, ha preso una gatta e l’ha chiamata Ginevra, dopo qualche mese si è accorta che c’era qualcosa di strano, preoccupata l’ha portata dal veterinario. Ha scoperto che il gatto era maschio, ora si chiama Ginevro. Non è meglio - domando divertita - in questo periodo storico pensare a un nome non binario? Lei ride, borbotta non binario e dice, Gin ti va bene

 

Serena Vitale è nata a Brindisi, ha studiato con Angelo Maria Ripellino, ha insegnato russo all’Università Orientale di Napoli, e dell’Università Cattolica di Milano (prima di Milano, Pavia, dieci anni noiosissimi), più di quarant’anni fa ha intervistato Šklovskji appollaiata sul bracciolo di una poltrona, quando apro il catalogo generale delle biblioteche italiane trovo 379 risultati collegati al suo nome: traduzioni, romanzi, miscellanee. E anche un audiolibro. Se una definizione quantitativa del sé avvilirebbe chiunque, nei fatti – parola che le è cara – di Serena Vitale c’è la possibilità di combinare tre o quattro vite. Serena, pensi ancora, come a Mosca, nel 1978 – chiedo – che è meglio morire di paura che di freddo? «Che domanda è, mica a Milano le temperature raggiungono i 29 gradi sotto zero?, comunque sì, lo penso ancora».

 

Sarà presto in libreria, per Adelphi, la sua traduzione e cura di “Conversazione su Dante” di Osip Mandel’štam, uno dei più grandi poeti del Novecento. Serena Vitale ha definito il libro un poema critico e, leggendolo, non ho trovato definizione migliore. È incredibile come dalla lettura di questo testo, sulla cui difficoltà e incomprensibilità molto è stato scritto, detto e immaginato si esca – io sia uscita – allegra come una adolescente che ha scorrazzato in un prato.

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Qual è il tuo rapporto con Mandel’štam?

 

«Di amore, stupore per la sua grandezza, nella poesia, nella prosa. Da giovanissima ne avevo letto alcune poesie con l’aiuto del dizionario o delle traduzioni ma ho capito che cosa significava il suo nome per i russi – i russi senza paura – nel 1967 a Mosca. Avevo appena conosciuto la moglie Nadežda Jakovlevna. C’era sempre, accanto a lei, nella sua piccola casa, un gruppo di giovani adoratori di Mandel’štam che la veneravano per il coraggio e la tenacia con cui aveva salvato l’opera del marito (morto in un lager, nel ’38). L’uscita del Dante era un miracolo. Quando si seppe che avevano dato l’imprimatur per la pubblicazione, volevamo uscire per la strada a ballare. Tanta era l’allegria».

 

Ballare per la pubblicazione di un libro?

«La letteratura non cambia un bel niente nella storia, con l’eccezione, forse, della letteratura di opposizione ai regimi totalitaristi. Non che la Conversazione fosse politicamente scorretta, ma la comparsa del nome di Mandel’štam sulla copertina di un libro russo, dopo 34 anni, sembrava dovesse cambiare tutto. E invece non è cambiato niente».

 

Mandel’štam ha imparato l’italiano con “La Divina Commedia”. Tu, il russo?

«Studiando sui manuali, all’università. Leggevo Tolstoj, Dostoevkij e altri, e come te prima (Mi ripeti il nome della moglie di Mandel’štam?) mi chiedevo: Ma cosa sono tutte queste š č ž? Come si leggeranno? Al corso di russo avevamo una lettrice, figlia di un émigré (fra scrittori, filosofi, gente comune, furono più di un milione quelli che lasciarono - o vennero costretti a lasciare - la Russia dopo il colpo di Stato bolscevico), e così riuscii a imparare un russo pulito, ancora non corrotto e imbarbarito dall’ideologia. Quando sono arrivata a Mosca per la prima volta mi prendevano per pazza, spesso non mi capivano (va detto che il mio russo, allora, non era proprio fluidissimo) e a volte sospettavano in me una spia. Agli inizi preferivo ascoltare, prendevo molti taxi - costavano poco, e poi mi sono sempre piaciuti i taxi - e chiacchieravo coi taxisti, che perdonavano molto. Ho avuto anche la fortuna di conoscere la sorella di Nabokov, Elena, che viveva a Ginevra e aveva più di 90 anni. Vedova, faceva tutto da sola in casa. Lucidissima, intelligente, la ascoltavo a lungo, incantata dal suo russo, mentre prendevamo il tè - non sai quanti tè ho dovuto bere e quanto russo ho imparato, anche se io odio il tè, troppo caldo. Sono stata fortunata, voglio dire. Sai che sembri Anna Snitkina, la moglie di Dostoevskij mentre prendi appunti? Lei però era stenografa di professione».

 

Quindi una sua intervista a te sarebbe stata più precisa?

«Tu lo dici».

 

Come è stato tradurre questo Mandel’štam?

«Difficile, per usare un eufemismo. A un certo punto cercavo un saggio sulla Conversazione nel sito Academia.edu, sai che per scaricarlo integralmente devi rispondere a “cosa ti interessa di questo scritto?”, ho risposto “Mandel’štam”. L’indomani leggo la risposta dell’autore. “Serena!”. Col punto esclamativo. Non ricordavo più il suo cognome, quando l’ho conosciuto era un giovane amico di Brodskij, da cui aveva ereditato la passione per Mandel’stam, su cui ha scritto ottime cose, pure lui è emigrato, ora vive in Svezia. Quando gli ho scritto che volevo tradurre la “Conversazione su Dante” mi ha risposto: “Meglio se ti suicidi!”, sempre col punto esclamativo. Non l’ho fatto - quanto meno nelle forme tradizionali e con decesso finale. È stato lui a darmi una o due mani, ogni tanto suggerendo qualche parola napoletana (conosce bene l’italiano e ha insegnato per un anno a Napoli). Forse potevo lasciarla. Nell’ultimo Mandel’štam ben poco ha una corrispondenza nel nostro - non solo italiano - universo linguistico. Nostro di umani. Ci sono metafore che, ad esempio, tengono insieme letteratura ed elettricità, cristallografia o geologia. E, in più, il salto dei legami logici è una costante del suo scrivere su Dante. Nella mia nota introduttiva (brevissima: cosa si può dire più o meglio di quanto già fatto da Mandel’štam?) ho scritto: Diamo a Mandel’štam il diritto all’incomprensibilità».

 

Col punto esclamativo?

«Sì. Poi però ho cambiato accontentandomi di una più modesta “oscurità”, per non spaventare i lettori. Ma continuo a pensare che l’impenetrabilità, l’incomprensibilità, sia una categoria estetica come le altre».

 

Il tuo rapporto con la poesia?

«Non l’ho mai considerata un conforto per l’anima. È, piuttosto, un meraviglioso disagio. Tradurla è una questione di orecchio e – come tante altre volte ho detto – di muscoli (cuore e grande gluteo, essenzialmente). La traduttologia è una scienza inesistente, falsa, pericolosa perché porta a intransigenze, esagerazioni, regolamentazioni – omicide come un certo fanatismo religioso o politico. Chi può stabilire come bisogna tradurre? Esistono regole che possano codificarlo? Ma se tradurre dipende anche dal tempo (metereologico) che fa! La traduzione è uno dei modi della letteratura. E chi può dire come si deve scrivere? A parte una regola aurea: senza errori di italiano, francese, giapponese, ecc. Io sono eternamente scontenta di quello che faccio, ma non per questo smetto di tradurre, ci provo. L’unica e inderogabile norma: conoscere bene la poesia italiana e quella russa (se in italiano si traduce dal russo). Sbaglio - ce n’è un’altra: convincersi che la poesia non è soltanto una strana cosa con le rime».

 

Sei stata sposata con Giovanni Raboni.

«Con Giovanni ho avuto occasione di capire le piccole cose da cui nasce la poesia (diceva Achmatova: “Se sapeste da quale immondizia nascono i versi”). E ancora di imparare la sobrietà milanese (io sono orgogliosamente pugliese), una versione limpida, equilibrata, apparentemente meno insidiosa dell’eccesso e dell’esasperazione che stanno sempre dietro i versi».

 

Quindi per tradurre non bisogna conoscere solo molto bene la lingua, ma anche la letteratura.

«Non solo, ma tutto l’umanamente leggibile. Per sondare altri livelli di incomprensibilità, scoprire altri volti per quello che Eliot definiva, tu lo sai meglio di me, “unhapprensible”. È una categoria per lui. La vera poesia non tollera la parafrasi, scrive Mandel’štam. Certe volte sembra non tolleri neanche la traduzione. Questo mio ultimo lavoro mi soddisfa, mi soddisfa abbastanza. Certe cose di Cvetaeva, invece, le rifarei completamente».

 

È vero che ogni volta che ti metti a tradurre Cvetaeva succede qualcosa?

«Sì, il terremoto di Napoli, il Covid, per dire le due cose più eclatanti».

 

E nonostante questo la rifaresti?

«Non sono superstiziosa».

 

"Qualcosa sulla Conversazione”.

«Viene pubblicata in inglese per la prima volta nel 1965, in russo non ne esistono edizioni critiche convincenti. Non credo del resto che se avesse potuto pubblicarla in vita avrebbe apportato cambiamenti sostanziali. Leggendolo, si capisce che quando ha incontrato Dante in italiano, ha fatto una delle più belle scoperte della sua vita. Per questo sei uscita allegra dalla lettura. Non mi piace chi continua a parlare di Mandel’štam come un martire: lo fu certamente, ma la “Conversazione” dimostra a fondo quanto geniale fosse la sua Ars poetica. Capiva, sapeva, che nulla è estraneo alla letteratura, sempre alleata di altre forme del sapere, della scienza. Traducendolo non sono diventata un’esperta di chimica o matematica – faccio i conti con la calcolatrice del telefono – ma ho capito fino in fondo la sua quasi profetica grandezza. “Dante può essere compreso solo con l’ausilio della teoria dei quanti”, scriveva. Sembra una boutade, ma non lo è. La letteratura non può esistere senza la scienza, la poesia non è aliena da quanto avviene nel mondo, non vive in chissà quale empireo. Mandel’štam era contro il Dante brunastro e cupo di Dorè, ho ritrovato l’edizione di un libro con le miniature trecentesche dove tutto è colorato, Dante veste di azzurro e Virgilio di rosa, ho capito perché era felice leggendolo. Torno sulle forme dell’essere e del tempo: quando parla del Conte Ugolino e della sua straziante voce da violoncello, strumento che non esisteva ancora all’epoca di Dante, il suo non è un errore, è un anacronismo. L’anacronismo è quello che, parlando d’altro, definiva “nostalgia della cultura mondiale”. La “Conversazione” è più bella del Dante di Eliot, o di quello di Pound, nella sua follia, nella sua piuttosto rimbaudiana oltranza».

 

La traduttologia non esiste, e la traduzione cos’è?

«La cosa più certosina che esista. Come il ricamo, o la tessitura. Non è la ricerca della perfezione, che non esiste, ma sgobbare, domandare domandare domandare, chiedersi chiedersi, fino a quando, forse, una notte ti svegli all’improvviso con la parola giusta, o comunque la migliore. La mia traduttologia: aspettare, rispettare».

 

In un anno di celebrazioni dantesche, cosa faresti con questo libro?

«Una volta tanto farei come un sovrano autoritario e dispotico, come Putin, per intenderci, lo imporrei come lettura ai liceali, non foss’altro per far capire ai ragazzi che non dobbiamo avere paura dell’incomprensibile, di questa oscurità. La nostra lingua la costruiamo noi, non possiamo solo prendere in prestito, per esempio, quella della tv, scrivere che un letto è “posizionato” sotto la finestra, o che siamo “resilienti” al fumo. Bisogna scrivere le parole corrette, e le parole corrette sono quelle che un testo chiede, esige. Non altre».

 

Dopo tanti anni di frequentazione, hai capito che cos’è la Russia?

«Sì, certo, tutto quello che sta a est di Brindisi».