Chivona Newsome, cofondatrice del gruppo Black Lives Matter dell’area di New York, da oltre un anno marcia per chiedere giustizia e inclusione. E sa che combattere per ciò in cui si crede può avere un prezzo molto alto

«Per essere un buon cristiano devi essere un servo di Dio: dare ai poveri significa dare a Dio, combattere per gli oppressi significa seguire gli insegnamenti di Dio. Gesù Cristo si è battuto per gli oppressi, ha salvato le persone, ha curato gli ammalati. Questo è ciò che ispira la mia lotta...». Chivona Newsome, cofondatrice del gruppo Black Lives Matter dell’area metropolitana di New York, trova nella fede la ragione principale del suo attivismo a favore dei diritti dei neri e sa bene, perché lo ha imparato sulla pelle, che combattere per ciò in cui si crede ha un prezzo, a volte molto alto. Da oltre un anno, insieme a suo fratello Hawk, marcia per chiedere giustizia, equità, inclusione.


Cosa rappresenta per lei George Floyd?
«La vicenda di George Floyd ha scosso il cuore dell’America e del mondo. Guardare il video raccapricciante del suo omicidio ha portato a una vera resa dei conti. Siamo arrivati al traguardo? No. È passato solo un anno, c’è tanto lavoro da fare. Sebbene sia giusto celebrare le piccole vittorie, non si può abbassare la guardia. George Floyd, però, ha aperto un dibattito sul razzismo che si evitava da troppo tempo. In questo senso, ha dato il via a una vera rivoluzione. E penso che tutti noi neri dovremmo essergli grati: la sua vita e la sua morte sono diventati eventi di portata storica, che hanno cambiato per sempre il nostro mondo».


Altre vittime, in passato, non avevano generato alcuna rivoluzione. Perché?
«Perché stavolta a protestare non siamo stati solo noi. L’America ignora i neri, e invece dallo scorso maggio non siamo stati più gli unici ad urlare: “Ehi, questo è sbagliato.” E non avremmo nemmeno dovuto urlarlo, perché i dati dimostrano da sempre che i neri sono vittime in modo sproporzionato della brutalità della polizia, della povertà, dell’assenza di assistenza sanitaria e praticamente di ogni singolo problema che affligge il Paese. Anche che l’emergenza Covid-19 ha giocato un ruolo notevole in questo frangente, perché il mondo ha avuto la possibilità di prestare attenzione e reagire. Ora le cose stanno cambiando rapidamente e questo richiede che le organizzazioni e gli attivisti stiano al passo. Se il mondo ascolta, possiamo finalmente dire quello che vogliamo ed essere pronti a lottare per ottenerlo».
Black Lives Matter è nato come hashtag nel 2013, all’indomani dell’uccisione di Trayvon Martin, grazie a tre donne: Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi. E a filmare e diffondere il video dell’uccisione di George Floyd è stata un’altra ragazza, diciassettenne, Darnella Frazier. Possiamo dire che le donne sono leader in questa rivoluzione?
«Le donne nere rappresentano la spina dorsale della società americana e, al tempo stesso, come ripeteva Malcolm X, sono la categoria più bistrattata di tutto il Paese. Guardando al risultato elettorale delle presidenziali, si capisce facilmente chi ha dato la spinta determinante alla vittoria di Joe Biden e Kamala Harris. Le donne nere sono leader da sempre, che si tratti di Rosa Parks o di una madre single che cresce i figli facendo tre lavori per garantire loro l’opportunità di studiare e avere un futuro migliore».


Il suo attivismo, però, le ha sconvolto la vita, obbligandola anche a indossare spesso un giubbotto anti proiettile.
«Porto giubbotti antiproiettile, sono accompagnata spesso da body guard e non resto mai nello stesso posto per più di dieci giorni perché non mi sento al sicuro. Tutto è iniziato lo scorso giugno: nel corso di una trasmissione tv, in cui mio fratello disse che bisognava “far saltare il sistema”. Questa dichiarazione era arrivata alla scrivania di Donald Trump, che dunque attaccò Hawk via Twitter. Da quel momento “Blm-Greater NY”, l’organizzazione newyorchese del movimento, e mio fratello sono diventati un bersaglio. Alcuni giornali conservatori hanno pensato bene di pubblicare anche il mio nome accanto al suo e, di conseguenza, sono diventata anche io un bersaglio. Ma le minacce di morte, ho imparato, funzionano in modi diversi. Mio fratello, per esempio, ne riceve continuamente. Per me, invece, si tratta di “ondate” legate a ciò che dico in un determinato momento. Trovo forza nella fede e non ho paura, ma sono cauta: non incontro i giornalisti a casa mia perché non voglio che le persone sappiano com’è disposta la mia casa, o altre informazioni che potrebbero facilitare un attentato. Le vicende di Martin Luther King e Malcolm X mi hanno insegnato che questo fa parte del gioco. Non c’è modo di sapere quando passerai dall’essere una persona che protesta a un attivista. Fino a diventare un organizzatore e, dunque, un nemico pubblico numero uno. Non ci si accorge mai del momento esatto in cui la nostra immagine cambia agli occhi di una parte dell’opinione pubblica».


Non si sente protetta dalla polizia?
«Le minacce le ho ricevute anche dalla polizia, il che dovrebbe rendere l’idea di quanto complesso sia indicare chi mi vuole morta. Sono stata picchiata dalla polizia lo scorso settembre, quando abbiamo bloccato il ponte George Washington: eravamo sul punto di sciogliere il corteo quando siamo stati attaccati. Per fortuna avevo il giubbotto antiproiettile, perché sono certa che mi ha salvata, ma non dai manganelli dei poliziotti che mi hanno colpita almeno quattro volte violentemente. Non posso chiedere protezione alle stesse persone che provano a farmi del male e mi vogliono morta. Non mi resta altro da fare che stare attenta e, di certo, la mia vita è meno divertente di prima: non posso andare a fare spese e non posso permettermi nemmeno il lusso di fare una passeggiata a Central Park per schiarirmi le idee. Quando sono fuori sono sempre in allerta, non posso sapere da dove arriva il pericolo. Ma non cambierei ciò che faccio per nulla al mondo. Se questo è il prezzo per ottenere la liberazione totale dei neri, allora sono disposta a pagarlo».


Una liberazione che passa anche dall’assistenza sanitaria.
«Anzitutto va detto che è disgustoso che siamo l’unico Paese al mondo a non avere copertura sanitaria universale. Perché anche con Obamacare non tutti hanno i requisiti per ottenere un’assicurazione e le prime vittime sono i neri. Nel Bronx ad esempio, dove sono cresciuta, ci sono le condizioni sanitarie peggiori di tutta la città se non addirittura di tutto lo Stato di New York. Il tasso di asma è otto volte superiore alle altre zone in città. E sono i neri a soffrire di più di qualsiasi ingiustizia sociale. Per questo mi batto per un sistema equo. Non credo nell’uguaglianza, che è un mito irraggiungibile, ma pretendo equità piena e totale per sanità e istruzione».