Idee
Il ritorno di “Certi bambini”, Gomorra prima di Gomorra
Di nuovo in libreria dopo vent’anni il libro di Diego De Silva. Romanzo di una denuncia ancora attuale: «Non è mancata la religione ma la cultura»
Oggi siamo mitridatizzati dalle Gomorre, Suburre e dalle loro varie declinazioni sul mercato di un orrore così ripetuto da provocare assuefazione, ma ieri, vent’anni fa, fummo scioccati, eppure non sorpresi, dal libro che le figliò tutte. C’era voluto uno scrittore, Diego De Silva, capace di respirare l’aria di un tempo nuovo e tradurlo in parole per rendere alfine manifesto un pensiero indicibile e soprattutto inudibile. Era la rottura del tabù per cui non esiste in alcune zone un’età dell’innocenza se Rosario, il protagonista, era diventato killer di camorra a 11 anni.
“Certi bambini” uscì nell’anno delle Torri Gemelle e ora Einaudi lo ripubblica con una prefazione di Domenico Starnone che lo trova «invecchiato bene», come un buon vino. Pur se il suo autore in uno slancio di sincerità fa un distinguo: «Ora lo riscriverei uguale dal punto di vista linguistico ma sarei molto più feroce sul piano della storia». Rivendica di essere stato il primo a usare il napoletano come lingua narrativa e tentare una sorta di traduzione in un “italiano sporco” per entrare nella testa di un piccolo analfabeta. Perché l’uso delle parole ci definisce fin dalle origini del mondo occidentale se “in principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il verbo era Dio”. E chiosa: «Il dialetto è la sincerità. Quando ti incazzi, ti incazzi in dialetto, lo strumento dell’impeto. A meno che tu abbia una lucidità omicida e allora ti serve l’italiano». Quanto alla ferocia, «ora la realtà è diventata più violenta e cinica». E dunque servirebbe un rincaro di crudezza.
Diego De Silva aveva il vantaggio, all’epoca, di esercitare la professione di avvocato penalista, di essere prossimo a vicende nefaste di cui si poteva intuire l’esponenziale sviluppo: «Anche se il volume uscì nel 2001, finii di scriverlo nel 1999 quando c’era ancora la regola per cui i bambini non si toccavano». Di lì a poco sarebbe stata derogata. Di più: essendo cresciuto a Salerno, in una società «molto più divisa di oggi in cui uno come me della classe media in alcuni circuiti non ci poteva entrare salvo essere derubato e picchiato», sapeva decrittare i codici della “cosiddetta” delinquenza minorile.
La preveggenza della deriva criminale si deve dunque all’intuito dello scrittore come talvolta capita e si sostanzia in una frase fatta ma veritiera per cui «la letteratura precede la vita». E tuttavia il bambino Rosario conserva ancora l’alone di un eroe romantico, si occupa della nonna malata, si innamora platonicamente di Caterina a sua volta amante dell’amico di cui si fidava, sono gli eventi che lo trascinano alla deriva, a impugnare un’arma vestito da calciatore, senza avere un’etica perché nessuno gliel’ha insegnata, senza distinguere il bene dal male. Non significa assoluzione, è analisi di un contesto nichilista, dostoevskiano senza la consapevolezza di quei personaggi russi di fine Ottocento. Un po’ moraviano per il tributo di riconoscenza che De Silva sente verso il grande romano così come verso il Sergio Leone di “C’era una volta in America”, film troppo amato per non avere scavato nel profondo senza lasciare tracce.
Fu solo dopo che l’uso dei baby killer diventò pratica sistematica, un’arma impropria perché non punibili e nemmeno sospettabili, sono in qualche modo dei kamikaze involontari. «La camorra», è De Silva che parla, «dà loro identità, un ruolo sociale, l’appartenenza a una comunità. Gestisce il loro rapporto con la morte che non ha nessuna dimensione drammatica, è un accadimento che si mette nel conto. L’aspettativa di vita degli aderenti ai clan è molto breve. Bruciano il tempo, ammazzano semplicemente chiunque sia da ostacolo a un loro disegno».
C’è da chiedersi allora che cosa si fosse rotto se solo poco prima, ad inizio anni Novanta, nei ricordi dell’autore, col sindaco Antonio Bassolino a Napoli si respirava «la rinascita della dignità, si era recuperato il senso della bellezza estetica, c’era fiducia nell’aria di una città con tanta storia di morte e resurrezione». Era venuto meno il rapporto con la religione capace di costruire una sicura scala di valori di riferimento? Oppure a mancare erano stati ancoraggi più laici, società, diritti, rispetto dell’altro, gli ingredienti per cui si credeva che la storia procede come una locomotiva verso il meglio senza deragliare dai binari? Lo scrittore non ha tentennamenti: «No, non è mancata la religione. Per quanto possa sembrare retorico è mancata la cultura, il solo modo per dare un orizzonte e riempire di contenuto un presente continuo con il quale non si costruisce nulla.
Non c’è identità, c’è solo tradimento. E infatti tutte le storie di camorra sono fatte di tradimenti che sfasciano, distruggono».
Eppure ci sarebbe un terreno fertile, non solo nella metropoli anche nei quartieri degradati dove abitano giovani «intelligentissimi e prensili». De Silva ripesca un episodio avvenuto quando fu proiettato in uno stadio di periferia l’opera dei fratelli Andrea e Antonio Frazzi tratta dal suo romanzo. C’era un gruppo di ragazzotti che «facevano gli stronzi, rapine, scippi», rumoreggiavano, tanto da lasciar immaginare che potessero «rompere i coglioni». Dopo i titoli di coda uno di loro chiese la parola e disse: «Ho apprezzato il film. Per la prima volta mi sono visto da fuori perché quando faccio le cose non mi vedo. E non mi sono piaciuto neanche un po’». È l’opera d’arte che offre una prospettiva, accende la spia del senso critico, è la bellezza che salva il mondo per usare di nuovo Dostoevskij.
Lo svezzamento dei baby killer è cresciuto di pari passo con la ritirata dello Stato, la sua assenza dalle aree più problematiche. La camorra offre un’alternativa. Sarebbe troppo semplice concludere che è solo colpa della società o è colpa della politica. Esiste anche la responsabilità individuale ovviamente, difficile da assumere per un adolescente se non ha un minimo di formazione, «non è strano che non si renda conto delle conseguenze dei suoi gesti». Per paradosso la situazione è persino peggiorata «quando la camorra ha spostato i suoi interessi lasciando per strada cani sciolti. Un professionista sa esattamente cosa fare. Se uccide, lo fa come estrema ratio, se viene beccato c’è la galera. Il cane sciolto può sfondare un cranio per un rolex, agisce in franchising fuori contratto». Uno schema che vale anche per il terrorismo, basti pensare ai colpi di coda in nome dello Stato islamico.
Dopo “Certi bambini”, nel 2006, ecco “Gomorra”. «Io ne ho salutato con gioia l’uscita e ho partecipato ad alcune delle prime presentazioni con Roberto Saviano. Libro importantissimo che ha descritto socialmente l’apparato antropologico che sta dietro i clan campani. E ha avuto il merito di porre l’attenzione su un tema inedito come lo smaltimento dei rifiuti tossici. Il fatto che sia poi diventato un genere ha portato a dei sottoprodotti che alla fine stancano». E riflettendo sulle differenze tra le due opere: «Io ho fatto un altro tipo di operazione. Ho scritto un romanzo con l’ambizione di fare letteratura. Di raccontare la piccola storia di un innocente rapinato del diritto di essere bambino e non un precoce adulto corrotto». E riflettendo sui suoi personaggi ma non solo: «Penso che l’emotività e la sensibilità siano una costruzione culturale e non biologica. Non si prova dispiacere per un altro perché si è nati buoni. I sentimenti sono codici di lettura che permettono di guardare l’altro e il suo dolore».
Dopo “Certi bambini” sono venuti i suoi best seller con al centro l’avvocato Vincenzo Malinconico (sono da poco iniziate le riprese di una serie televisiva Rai, regista Alessandro Angelini, principali interpreti Massimiliano Gallo, Lina Sastri, Teresa Saponangelo, Michele Placido). E Malinconico è, per De Silva, «lo sguardo attuale, più spernacchiante rispetto alla commercializzazione spinta del tema criminalità». Viene da chiedere quale sia la possibile ricetta, il che fare? per battere la camorra. De Silva stoppa immediatamente: «Uno scrittore che rispondesse a questa domanda è un cretino».