Intervista
«La vera archeologia è nella polvere, non al cinema o nei romanzi. E serve una riforma»
Gli scavi in Medio Oriente e a Pompei. La bellezza esotica. Ma per far decollare la professione serve che la politica intervenga. Come spiega il grande archeologo Luigi Malnati
«L’archeologia ha ancora intatto tutto il suo fascino. Ma i nodi sono tanti». La racconta così, Luigi Malnati, archeologo specializzato ed ex direttore generale alle antichità, quella affascinante ma allo stesso tempo intricata professione che è l’archeologia. Nel suo nuovo libro, “La passione e la polvere. Storia dell’archeologia italiana da Pompei ai nostri giorni“ (La nave di Teseo), descrive la storia di un mondo affascinante ancora poco conosciuto e che per ritrovare la sua naturale bellezza necessita di una rivoluzione che lo riporti al suo antico splendore. Quello che si trova nei cantieri, nella terra, nel fango.
Professione archeologo: ma è un settore fruttuoso dal punto di vista lavorativo per i giovani?
«Se le forze politiche capiscono l’importanza di una riforma del settore, si. Con il ministro Franceschini purtroppo si è tornati indietro e se le cose dovessero rimanere così io sono molto pessimista, perché le soprintendenze uniche devono occuparsi di tutto, dalla preistoria alle manifestazioni di piazza, ai piani paesaggistici e in questa situazione l’archeologia rappresenta una parte molto minoritaria di tutto questo lavoro».
Siamo di fronte a una disciplina in evoluzione. Ma quali sono state le tappe fondamentali?
«L’archeologia come scienza nasce nell’Ottocento con il positivismo, l’empirismo e con l’approfondimento della scienza tecnologica. Ma è una storia più lunga. Già nel Medioevo si parlava di archeologia, ma era legata per lo più al culto dei martiri, dei santi, dei protettori delle città. Diciamo che era vista con un certo distacco. È con il Rinascimento che c’è un risveglio di interesse, rivolto però soprattutto ai manoscritti, alle opere d’arte e alle opere letterarie. A partire dall’Ottocento invece non ci si limita più solo a cercare le cose perché belle, preziose o curiose ma si intuisce che tramite lo scavo condotto con criteri scientifici si può costruire una storia e si possono integrare le fonti scritte. L’archeologia moderna però non va confusa con la storia dell’arte. È una scienza che grazie al suo strumento principe, che è lo scavo archeologico, porta in luce una documentazione del passato che contribuisce a ricostruire il modo di vita, gli aspetti economici e tanti altri elementi di tipo urbanistico o storico di una civiltà, che le fonti scritte non sempre ci danno. Spesso la gente ha un concetto di patrimonio archeologico come ciò che è solo visibile: dal Colosseo a Pompei all’Arena di Verona, e poi ancora i monumenti esposti nei musei, le statue, gli affreschi, i cocci, i reperti, ma in realtà il patrimonio archeologico è soprattutto sotto terra».
Quindi sarebbe più giusto parlare di archeologia contemporanea? Qualcosa che guarda al passato ma che è strettamente legata al presente?
«Assolutamente si. E sarebbe ancora più giusto se fossimo riusciti negli ultimi quarant’anni a fare quello che sono riusciti a fare altri Paesi europei, e cioè creare un’archeologia professionale. Mi spiego: fino agli anni ‘50-’60 gli archeologi erano o universitari che facevano scavi di ricerca oppure funzionari di soprintendenza. Non esisteva la professione di archeologo. Quando negli anni ‘80 il ministero dei Beni culturali ha cominciato a prendere consistenza, sono stati assunti tanti archeologi, gli scavi si sono moltiplicati e l’attenzione nei confronti della disciplina è aumentata. I funzionari da soli non riuscivano a controllare tutto questo e poiché gli scavi dovevano essere fatti con un metodo stratigrafico, non più con operai comuni, si è creata una professione, che ha dato negli ultimi quarant’anni lavoro a centinaia e centinaia di giovani studenti».
E contemporaneamente con la disciplina si è evoluta anche la professione...
«La mia generazione, quella degli anni ‘80, ha cambiato il metodo di tutela del patrimonio archeologico. Purtroppo però questa modifica non è stata e non è tuttora corrisposta da un reale cambiamento legislativo. Il Codice dei beni culturali, per quanto riguarda l’archeologia, è la legge del 1939, che riconosceva soltanto due occasioni di ritrovamenti: il ritrovamento fortuito e lo scavo di ricerca. Ora, di fortuito in archeologia non c’è quasi nulla, mentre gli scavi di ricerca sono un’altra cosa, richiedono un altro tipo di lavoro e sono anche molto minoritari. Nel 2011, quando ero appena stato nominato direttore generale dell’antichità, feci una specie di censimento agli stati generali dell’archeologia e risultò che a fronte di poche centinaia di scavi di ricerca fatti dalle soprintendenze e dalle università in concessione, oltre 7mila erano fatti per motivi di emergenza o archeologia preventiva e sono in sostanza quelli che danno lavoro agli archeologi. Al momento la legge è rimasta quella, ma andrebbe fatta una riforma sostanziale. Il nostro non è un mercato veramente aperto, non premia la qualità del lavoro, perché l’unica cosa che dovrebbe interessare è lo scavo e fare in modo che esso avvenga nel modo più scientifico possibile. Purtroppo così non è. Ed è un peccato: lo scavo archeologico è irripetibile».
Nonostante i problemi, l’archeologia mantiene intatto il suo fascino. Non le dà ottimismo?
«Certo. Il fascino di cui parla è quello della grande scoperta, del ritrovamento esotico, di Indiana Jones, degli scavi in Medio Oriente e quelli di Pompei. È un fascino legato al passato, un fascino irripetibile. In tutto questo poi anche il digitale gioca un ruolo importante. Ha molto da dare all’archeologia, perché consentirebbe di accelerare tutta la documentazione, sia quella di scavo che quella di reperti che vengono estratti».
Lei fin da giovanissimo ha lavorato presso il nuovo ministero dei Beni culturali. Fare l’archeologo era il suo sogno sin da bambino?
«Si. Io ho percorso convintamente la strada tradizionale di studio per fare l’archeologo. Già prima della specializzazione ho vinto il concorso per funzionario archeologo quindi ho fatto l’archeologo di soprintendenza per quarant’anni. Il mio obiettivo è cercare di far capire alla gente che cos’è realmente l’archeologia, che non è quella che si vede al cinema o nei romanzi, ma è quella che si trova in fondo ai cantieri, nella polvere, è quella per cui ci si sporca le mani di fango. L’archeologia, se fatta in modo corretto e con delle scelte ponderate, è una scienza magnifica, può consentire di realizzare progetti e magari creare nuove aree archeologiche, che diano posti di lavoro da un lato e attirino turisti e visitatori dall’altro».