Alla ricerca del tempo perduto
Perché il mestiere dell’archeologo ci affascina così tanto ancora oggi
Alla ricerca del tempo perduto
Perché il mestiere dell’archeologo ci affascina così tanto ancora oggi
Saggi, romanzi, film, la saga di Indiana Jones: l’archeologia è sempre più pop. E se le tecnologie cambiano, la “poesia” degli scavi resta immutata. Il direttore del Museo egizio di Torino spiega perché
In un mondo immerso in una cultura sempre più digitale e digitalizzata, in cui la globalizzazione e la velocità dei cambiamenti tendono a schiacciare la prospettiva storica, trasformando il passato in un’ipertrofica storia del presente, i musei, e quelli archeologici in particolare, devono mirare a illuminare le fasi più salienti della civiltà valorizzando le specificità della cultura materiale. Con cultura materiale si intendono tutti gli aspetti visibili e concreti di una cultura, quali i manufatti provenienti da contesti abitativi, gli oggetti della vita quotidiana impiegati nelle attività lavorative, ma anche nella pratica religiosa e nelle attività produttive. Si tratta quindi di un tipo di approccio alle collezioni che focalizza l’attenzione su tutti i prodotti dell’uomo, e sull’analisi dei rapporti di produzione-scambio-uso. Gli studi di cultura materiale ricostruiscono il modo attraverso cui l’insieme delle conoscenze empiriche ha modificato il rapporto tra le società umane e le risorse naturali dell’ambiente, tra i bisogni di migliorare la qualità della vita e il saper trovare soluzioni utili e ripetibili. Non investono dunque il solo campo della sussistenza, ma l’intero arco delle esperienze pratiche e del sapere tecnico. Le serie dei manufatti custoditi sopravvissuti dal passato, incorporano la fatica dell’uomo, ma anche le sue conoscenze, i suoi comportamenti, i valori culturali condivisi da intere società o da gruppi.
Esiste un’interdipendenza fra l’essere umano e la cultura materiale da lui prodotta. Gli oggetti creati dall’uomo, poi, gli sopravvivono e restano testimoni della sua vita, delle sue abitudini, delle sue relazioni.
Compito dell’archeologo è quello di ricostruire, sulla scorta della cultura materiale, gli usi e i costumi degli antichi. Per far questo, bisogna indagare ogni artefatto per cercare di comprenderne a fondo la biografia. Ciascun oggetto, infatti, raccoglie in sé una moltitudine di informazioni. Innanzitutto possiamo cercare di dargli una contestualizzazione cronologica e di capire da dove esso provenga e quale sia stata la sua funzione. L’analisi, però, non si può fermare a questo livello. L’artefatto contiene in sé una serie di informazioni ‘nascoste’ che permettono di rispondere a un’ulteriore serie di domande. È opportuno ricordare, come fa Ian Hodder all’inizio del suo volume Entangled (Interconnesso, libro in cui analizza la stretta relazione fra l’essere umano e gli oggetti) la definizione che Martin Heidegger diede di giara, nella raccolta di opere dal titolo Poetry, Language and Thought del 1971 (1). Si prova, infatti, una certa insoddisfazione nel produrre di un vaso solo una descrizione fattuale, nell’indicarne la cronologia, nell’individuarne la tipologia. Quando, infatti, pensiamo alla sua funzione, comprendiamo che è essenziale sapere quale fosse il liquido contenuto all’interno. Questa sostanza poteva essere olio, birra, vino o semplicemente acqua. A volte, il contenuto poteva venir utilizzato in un contesto rituale, ad esempio per compiere un’offerta agli dèi. Si potrebbe quindi affermare che la giara può essere studiata come elemento di congiunzione fra la terra, in quanto fatta di argilla, gli uomini, perché proprio costoro l’hanno creata, e il cielo, in quanto poteva fungere da strumento in un rituale religioso.
Oggi, le moderne analisi archeometriche possono aiutarci a dare una risposta a molti dei quesiti che sorgono nello studiare un contenitore antico. A volte, già l’analisi autoptica o la diagnostica per immagini ci fanno scoprire dettagli interessantissimi, quali ad esempio la presenza delle impronte digitali dell’artista che ha modellato l’oggetto. Le indagini sugli isotopi ci permettono di capire che tipo di argilla sia stata utilizzata per costruire il manufatto, e di determinarne addirittura il luogo di provenienza. L’analisi del residuo è in grado di fornirci indicazioni su quale sia stato l’ultimo liquido contenuto all’interno di un vaso. Ecco, quindi, che raccogliendo tutte queste informazioni l’oggetto pian piano ci svela la sua storia, ci permette di ricostruire la sua biografia e diventa la chiave di lettura per comprendere abitudini e costumi degli antichi (2).
Considerare, però, l’artefatto come mero documento storico, come testimone superstite di un mondo lontano e scomparso non rende appieno giustizia del suo valore. Quando visitiamo un museo e ammiriamo un reperto custodito all’interno di una vetrina, instauriamo con esso un rapporto che va aldilà della sua testimonianza relativa al mondo a cui è appartenuto. Tale reperto, infatti, ‘vive’ nel presente una nuova esistenza. Viene contemplato, studiato, classificato, interpretato e assume un valore probabilmente molto diverso da quello che aveva nel passato. Un sarcofago egizio non è certo stato creato per essere esposto all’interno di una vetrina e venir ammirato, molti secoli dopo, come un oggetto d’arte. Dunque, anche questa seconda vita, condotta nel museo, ha la sua valenza e deve essere analizzata e studiata.
Potremmo dire che nel ricostruire la biografia dell’oggetto archeologico, non bisogna scordare che esso è stato dimenticato e disperso, che a volte è stato riutilizzato con scopi e finalità diverse, che è stato riscoperto grazie a degli scavi archeologici, e che è tornato a nuova vita, esercitando infine una sua funzione all’interno di un percorso museale. Per riscostruire la biografia di un artefatto custodito all’interno di un museo, quindi, non dobbiamo dimenticarci del valore degli archivi che documentano la storia della sua acquisizione nel mercato antiquario, del suo rinvenimento archeologico, nonché dell’importanza che può aver rivestito nella storia della disciplina e del conseguente interesse suscitato fra gli studiosi e la comunità civile in generale. La disamina delle pubblicazioni, l’analisi del risultato degli studi condotti da coloro che in un passato recente e lontano si sono dedicati alla comprensione di tale oggetto, ci permettono quindi di capire anche un altro aspetto fondamentale in questo percorso, ossia come la ricerca sia in continua evoluzione. Per citare un esempio, grandi studiosi che, nel passato, sono riusciti a decifrare per primi la lingua degli antichi Egizi, hanno avuto intuizioni, sono riusciti a cogliere a fondo il significato di un determinato reperto e le loro conclusioni rimangono valide. A volte, al contempo, nuove scoperte, osservazioni diverse, l’evoluzione di punti di vista, ci hanno portato a mutare le conclusioni precedenti (3).
La ricerca ci insegna a mettere costantemente in discussione i nostri risultati nel tentativo di comprendere a fondo il mondo antico e di capire sempre di più noi stessi. Lo studio approfondito di una civiltà antica comprende l’analisi degli avvenimenti storici, l’interpretazione delle fonti scritte e del dato archeologico, lo studio della società, dell’organizzazione economica, sociale, politica, dell’amministrazione, dell’evoluzione del pensiero, della teologia e della ritualità legata al culto del soprannaturale, delle concezioni sulla vita dopo la morte e delle considerazioni sulla caducità dell’esistenza umana. L’archeologia ha portato alla luce insediamenti che ci fanno scoprire l’attività umana di migliaia di anni fa. Noi siamo tutti in debito con questa storia passata e ne siamo una derivazione conseguente, portandone l’eredità. La nostra stessa struttura biologica, la nostra tecnologia, la composizione della società e della cultura contemporanea, addirittura il nostro metodo cognitivo e la nostra psicologia derivano dal passato. La consapevolezza storica e lo studio delle civiltà antiche sono quindi essenziali per comprendere il nostro ruolo nel presente (4).
L’interconnessione fra ‘le cose’ e gli umani è davvero pervasiva e vive in una costante relazione di mutua influenza. La nostra stessa struttura biologica e cognitiva è influenzata dalla cultura materiale, e per questo dobbiamo impegnarci a studiare il rapporto fra corpo, mente e oggetti. Nonostante il fatto che questa consapevolezza sia largamente diffusa, resta, tuttavia, una distanza da colmare fra le scienze umane e quelle naturali. Gli umanisti, infatti, pur sottolineando come il rapporto e l’interconnessione fra soggetto e oggetto sia imprescindibile nella comprensione della storia, tendono ad avere un approccio umano centrico, e negli studi di agency della cultura materiale, di fenomenologia e archeologia cognitiva, si presta poca attenzione alla materialità dell’oggetto. Gli archeometri, d’altro canto, registrano tutte le caratteristiche morfologiche degli oggetti studiandone a fondo le peculiarità chimiche e fisiche.
Se gli umanisti, quindi, si concentrano sui processi sociali e storici tramite i quali la cultura materiale è prodotta e influenza l’esistenza umana, e gli scienziati naturalisti ci fanno un resoconto esatto delle caratteristiche intrinseche degli oggetti, corriamo il rischio di affrontare lo studio dei manufatti tramite due binari paralleli e non comunicanti. Una composizione fra questi punti di vista è assolutamente necessaria per comprendere la complessità della vicenda umana e del mondo che la circonda. Gli umanisti devono coinvolgere gli archeometri nella definizione della cornice teorica che definisce gli studi sulla cultura materiale, e gli scienziati naturali, al contempo, devono rendersi conto di come il ruolo degli umanisti sia fondamentale per comprendere a fondo l’interdipendenza fra esseri umani e artefatti. L’archeologo, l’antropologo, lo storico, il filosofo, il neuroscienziato, lo psicologo, lo scienziato sociale devono lavorare fianco a fianco del chimico, del fisico, dell’esperto informatico, per arrivare alla definizione di una nuova semantica che ci permetta di capire ed elaborare la complessità della realtà.
Archeologia digitale
L’archeologia è sempre stata caratterizzata da una lealtà verso gli oggetti, dando ragione al significato etimologico del termine che definisce tale branca del sapere con questo significato letterale: la scienza delle cose vecchie. È opinione comune che questa disciplina si occupi di scoprire il passato ma sarebbe, invece, più corretto dire che cerca di trovare delle modalità per conferire un senso compiuto ai frammenti del tempo. Se questo è il suo obbiettivo, ne deriva come corollario l’esigenza di definire una modalità di documentazione più fedele possibile, nella consapevolezza che, intervenendo in modo invasivo, operando tagli nel terreno, si eliminano livelli stratigrafici per raggiungere superfici più profonde e più antiche. Questo spiega come, nell’attenzione che viene data ai resti materiali, si sia sviluppata una primazia epistemologica degli oggetti assieme a un’assoluta cura nella modalità di documentazione; nel tempo, ciò ha portato a instaurare una relazione stretta con la tecnologia e a sperimentare modalità di registrazione sempre più innovative. Dalla geofisica alla fotografia, da metodi diagnostici che permettono di sondare e penetrare il terreno, si arriva alla definizione di rigidi protocolli che devono garantire procedure codificate e certezza del dato.
Gli archeologi hanno, seppur gradualmente, abbracciato con un certo entusiasmo le tecnologie e i mezzi di comunicazione che via via si rendevano disponibili; un ruolo sempre più importante, in questo settore, rivestono la modellazione tridimensionale, la realtà aumentata e virtuale. Sulla base di dati archeologici, si riescono così a creare simulazioni e ricostruzioni di edifici e paesaggi antichi. Le tecnologie informatiche sembrano dare una risposta all’esigenza primaria nella cura del patrimonio: arrestare l’inevitabile e costante processo di decadimento e cristallizzare il passato. Dal punto di vista epistemologico è importante, tuttavia, definire il ruolo che una ricostruzione di un determinato sito può avere. Non si tratta di una semplice immagine animata che riporta in vita epoche lontane ma, più propriamente, di uno strumento cognitivo che permette, partendo dal dato archeologico, di costruire una particolare connessione con il passato. Una modellazione tridimensionale diviene uno spazio di mediazione, costituisce la riproduzione di un archivio e rappresenta uno strumento compartecipativo in cui il curatore, l’artefatto e il fruitore sono in dialogo fra di loro.
A questo punto, si pone in modo sempre più urgente la necessità di comprendere quale sia la corrispondenza fra quanto è rappresentato e il dato archeologico originale. Nella preoccupazione di ottenere un’accurata riproduzione di rovine, reperti, oggetti, l’archeologia, così come le scienze naturali e sociali, si trova ad affrontare il perenne problema della corrispondenza fra rappresentazione e realtà, definito dai filosofi della scienza come la finalità suprema dell’epistemologia contemporanea. Bisogna tuttavia studiare la questione da un altro punto di vista, superando l’idea che esista una divisione ontologica fra persone e cose, fra pensiero e realtà, fra passato e presente, fra l’operato dell’archeologo e la metodologia di rappresentazione. Dobbiamo allontanarci dal presupposto che vi sia un passato immobile, inerte, statico, che possa essere rappresentato epurandolo da ogni distorsione interpretativa. Certo, interrogarsi sulla natura e sull’origine del dato archeologico rimangono questioni centrali nella metodologia di lavoro. Fondamentale resta però il comprendere che le rappresentazioni prodotte non costituiscono delle copie inerti ma piuttosto delle traduzioni, temporali esse stesse, che cercano di cogliere le complesse interrelazioni fra l’oggetto, il sito di provenienza, le trasformazioni sociali, culturali e storiche, nell’inarrestabile processo di decadimento entropico a cui noi e la cultura materiale siamo inevitabilmente sottoposti.
La digitalizzazione e le nuove tecnologie permettono di accentuare l’interconnessione dei dati fornendoci la possibilità di collocare un artefatto nello spazio, ricreando un paesaggio, curando dettagli fotografici e ricostruzioni, fornendo un modello il più completo possibile del passato. Si arriva così a formare quello che a ragione potremmo definire ‘un patrimonio culturale digitale’. Spinti da un positivismo tecnologico, si potrebbe pensare di aver ottenuto una corrispondenza biunivoca fra la rappresentazione e la realtà ma, come affermato poc’anzi, è opportuno riferirsi al lavoro archeologico non considerandolo una mimesis, ma una trasformazione, una traduzione, una vera e propria mediazione fra gli oggetti antichi, il paesaggio e l’agency che le rovine tutt’ora esercitano. Le rappresentazioni virtuali non sono degli specchi e nemmeno delle semplici copie, quindi non devono incoraggiarci a uno statico voyeurismo del passato; esse hanno, invece, un ruolo attivo nel processo cognitivo e costituiscono degli strumenti che ci permettono di comprendere a fondo i resti che le generazioni precedenti ci hanno lasciato.
Frammenti di memoria sono contenuti negli oggetti, nelle vestigia; il paziente lavoro archeologico consiste nel creare connessioni fra la cultura materiale, le tracce nel terreno, i testi e la necessità di documentare e rendere visibile quanto investigato. In un processo che è dinamico e inarrestabile si cristallizza, temporaneamente, un modello interpretativo, nella consapevolezza che in futuro nuovi punti di vista potranno portare a modificare i risultati a cui si è finora approdati. L’importante corollario che ne deriva è che l’archeologia non possa essere vista come semplice scienza della scoperta ma le si debba riconoscere un ruolo attivo di mediazione fra i resti materiali e la società contemporanea.
I musei non devono quindi essere vissuti come semplici custodi del passato, ma possono invece trasformarsi in laboratori attivi di innovazione che cercano di fornire sempre nuove risposte. Il loro ruolo è fondamentale nel determinare la costruzione di una memoria collettiva; il design informatico, le infrastrutture digitali, la metadatazione, le modalità di archiviazione e classificazione divengono strumenti indispensabili in questo processo. Nel generare nuove pratiche scientifiche, nel richiedere l’applicazione di tecnologie sempre più sofisticate atte a cogliere aspetti inediti, in grado di documentare il costante flusso di informazioni che la cultura materiale è in grado di fornirci, l’archeologo mette in relazione il futuro con il passato, nella consapevolezza che il suo lavoro non riuscirà comunque a esaurire le molteplici qualità degli oggetti, la loro ambiguità e incoerenza. Vi sarà sempre qualcosa da aggiungere e da studiare nei resti che il passato ci ha lasciato, operando costantemente delle scelte necessarie, volte a decidere cosa si debba registrare e cosa omettere. L’operazione qui esposta, ossia quella di rendere il più possibile esplicite informazioni nascoste e al contempo di costituire una scala di priorità, definisce le cosiddette pratiche di memoria.
Le moderne tecnologie informatiche hanno permesso una proliferazione nelle modalità di conservazioni dei dati; accanto ai tradizionali diari di scavo, disegni, rilievi è infatti ormai consueto disporre di fotografie digitali, documentazione fotogrammetica, modelli tridimensionali, complesse indagini diagnostiche, video, registrazioni audio. Per assicurare longevità e consultabilità nel lungo periodo diventa indispensabile programmare un sistema di stoccaggio, aggiornamento, rimodulazione dei dati. A maggior ragione il patrimonio culturale digitale richiede uno scambio proficuo fra le costanti innovazioni tecnologiche che provengono da vari settori della società, la modalità in cui viene condotta la ricerca sul campo e le esigenze di accessibilità. Cresce al contempo la consapevolezza che il modo in cui organizziamo una tassonomia delle informazioni determina la generazione della memoria collettiva e la possibilità di future connessioni con la cultura materiale del passato. In questo risiede la rilevanza che l’istituzione museale continua ad avere nella collettività, in quanto depositaria e custode di quei frammenti di memoria che ci permettono di comprendere come affrontare il presente in modo informato e consapevole.
1 I. Hodder, Entangled. An Archaeology of the Relationships between Humans and Things, Oxford 2012; M. Heidegger, Poetry, Language, Thought, London 1971.
2 D. Miller, Materiality, Durham 2005.
3 L. Meskell, Object Worlds in Ancient Egypt. Material Biographies Past and Present, Oxford 2004.
4 C. Renfrew, P. Bahn, Archaeology. Theories, Methods and Practice, Thames and Hudson 2016.
5 B. Olsen, M. Shanks, T. Webmoor, C. Witmore, Archaeology. The Discipline of Things, University of California Press, 2012.