Dentro “Il Sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo e nel romanzo di Tomasi di Lampedusa si scontrano due modi opposti di essere siciliani. Opposti

“Il Sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo, uscito quasi venti anni dopo la pubblicazione del “Gattopardo”, è un’opera che non si può non confrontare con quella di Lampedusa a partire dai comuni riferimenti storici e dai personaggi. “Il Sorriso” si colloca in una posizione fortemente critica dell’impostazione ideologica del romanzo lampedusiano per suggerire una diversa prospettiva storica.

 

I protagonisti delle due opere, appartenenti all’aristocrazia siciliana, sono quanto di più opposto si possa immaginare. Entrambi coltivano arti e studi: il Salina è un matematico appassionato di astronomia, di stelle, cieli, comete e pianeti; il Mandralisca è un malacologo, si occupa di lumache. Una scelta non casuale, quella di Consolo, probabilmente provocatoria: volgere lo sguardo alla terra, alle sue radici, alle sue viscere, per quanto sgradevole possa esserne la visione. E da lì partire.

 

Nel Gattopardo assume un rilievo centrale il dialogo-monologo con Chevalley, a partire da quell’ultima cruciale parola che chiude la quarta parte del romanzo: “irredimibile”. Nel respingere l’offerta del seggio senatoriale Salina evoca la natura dei “Siciliani”, il loro avere in odio «il fare», l’anelito fondamentale è «ritrovare il proprio dormiveglia»: il sonno è «ciò che i Siciliani vogliono», tutto è «desiderio di morte»; il salto dalla storia alla metastoria è successivo: la natura dei siciliani deriva dalla Sicilia: «l’ambiente, il clima, il paesaggio […] che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata»; e ancora: i siciliani non vogliono migliorare perché «credono di essere perfetti, dei».

 

Se si esclude qualunque possibilità di cambiamento, allora sì che tutto appare “irredimibile”. La filosofia della storia di Salina è filosofia senza storia, senza uomini, è storia biologica e naturale. È solo uno strumento consolatorio e auto-assolutorio che offre un alibi. Per giustificare il fallimento di una classe dirigente nel confronto con le altre esperienze europee e italiane e, alla fine, per perpetuare il proprio potere all’insegna del trasformismo.

Questo monologo è stato uno dei testi letterari più citati, quello che più ha fatto avvertire il fascino di un mondo decadente (si pensi al film di Visconti), ed è stato citato a destra e a manca con compiacimento come se offrisse la chiave magica per interpretare la Sicilia e i siciliani e, in molti casi, i suoi contenuti sono diventati senso comune.

 

Non a caso, in alcuni scritti sulla mafia pubblicati da Bompiani nel 2017, “Cosa loro” (a cura di Nicolò Messina), Consolo disvela la mistificazione ideologica del «sentenzioso romanzo che è “Il Gattopardo”». «Noi fummo i Gattopardi e i Leoni; quelli che ci sostituiranno…», è la sentenza del Lampedusa. Ma non è stato così: «che i gattopardi e i leoni non sono stati del tutto sostituiti, ma che essi stessi si sono trasformati in sciacalli e iene e che forse tali sono sempre stati».

 

Il Mandralisca assicura il proprio sostegno all’Interdonato, liberale rivoluzionario in esilio, nel moto insurrezionale di Cefalù del 1856, in una situazione di assoluta incertezza e di grande rischio (clandestinità o carcere). Poi c’è lo spartiacque di Alcara Li Fusi a indurre una nuova radicale consapevolezza. L’arrivo di Garibaldi e la sua rivoluzione contro i borboni era stato il segnale della rivoluzione contro tutte le ingiustizie. La rivoluzione avrebbe portato giustizia? Allora doveva significare “terra”, da togliere ai padroni per darla a chi su quelle zolle lasciava l’anima e il sangue. Queste rivolte, Alcara come Bronte, saranno brutalmente represse con speciale ferocia dagli stessi garibaldini nel cui nome i ribelli avevano agito.

 

Il barone, testimone diretto degli accadimenti d’Alcara, si sente in dovere di inviare al procuratore generale, che adesso è il liberale Interdonato, una memoria a favore dei rivoltosi «quale mezzo conoscitivo indipendente»: è una netta scelta di campo a favore di quegli uomini che sì, scrive il barone, è vero che agirono con violenza, «chi può negarlo?, ma spinti da più gravi violenze d’altri, secolari, martirii soprusi angherie inganni».

 

È il momento in cui il Mandralisca getta il cuore oltre l’ostacolo. Cosa può fare un liberale illuminato? Potrebbe agire «Per l’Italia e i Savoja? Con Garibaldi?», si chiede il barone. Ma come potrebbe farlo dopo quello che ha visto sulle montagne dei Nebrodi? Mandralisca, dopo i moti di Cefalù, ha assistito alla fucilazione dei compagni e all’arresto di madri e sorelle, è stato in carcere; non può essere sospettato di diserzione o di indifferenza, eppure…: «Oggi mi dico: cos’è questa fede, quest’ideale?» a cui abbiamo dedicato la nostra vita? Questo ideale non è altro che «un’astrattezza, una distrazione, una vaghezza, un fiore incorporale, un ornamento, un ricciolo di vento […] Una lumaca». Non è una dichiarazione di resa, ma una sfida inedita, un rilancio. È indispensabile che gli “altri” in quanto “altri”, con la loro autonoma soggettività, possano raccontare la loro storia: perché sino ad oggi, spiega il Mandralisca, la storia è stata un’ “impostura”, anche quando è stata scritta da «noi cosiddetti illuminati». Gli «altri», scrive nella lettera al procuratore, non possiedono «il mezzo del narrare, a voce o con la penna». Ma, ecco il definitivo salto in avanti, il problema non è solo la scrittura, il vero problema è «il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente». Questa è la suprema consapevolezza: «Noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi».