Esclusivo
Jonathan Franzen: «Negli Stati Uniti è il caos ma non formiamo governi come in Italia»
Trump? Uno scherzo che sarebbe piaciuto agli hippie. Internet? L’apoteosi del consumismo. Dio? No, grazie. E l’ecologia, l’amore, la scrittura. Il grande scrittore americano si racconta in un’intervista esclusiva
In “Crossroads”, il suo ultimo, meraviglioso romanzo pubblicato da Einaudi, racconta i tormenti di una famiglia molto religiosa nei primi anni Settanta. In un’America stravolta dalla guerra in Vietnam, e dalle proteste studentesche. « Erano anni di insofferenza per la tradizione», inizia a dire Jonathan Franzen, «ma anche anni in cui si credeva che l’amore potesse cambiare il mondo».
Cosa è rimasto di quelle spinte e convinzioni quasi religiose della sinistra? E qual è l’interpretazione che uno dei più grandi scrittori americani dà del «fenomeno Trump», come lo chiama lui, e della vittoria dei partiti di estrema destra nei parlamenti di mezza Europa? A partire dalle vicende del suo romanzo, in questa intervista esclusiva Franzen - che ci tiene a definirsi «un razionalista rigoroso» - ci parla del suo personalissimo rapporto con la religione. Della crisi ecologica che, oltre alla recrudescenza dei movimenti sovranisti, sta mettendo a repentaglio l’equilibrio della Terra. E del suo amore assoluto per la letteratura, «per quei romanzi che ci raccontano come un significato delle cose e della vita sia ancora possibile oltre il brutto spazio polarizzato di Internet».
Partiamo dalla religione. Lei crede in Dio, Franzen?
«No, non l’ho mai fatto. Come dice Perry in “Crossroads”, non ho mai ricevuto un segnale dall’altro capo della linea. E presto, almeno da quando avevo 12 o 13 anni, ho letto molta scienza e non mi era chiaro cosa significasse la metafisica. Quindi no, sono un razionalista piuttosto rigoroso, e lo sono stato per la maggior parte della mia vita».
Da bambini però si crede nei miracoli. Lo ha fatto anche lei?
«In effetti, ho un rapporto molto forte con i mondi magici. Soprattutto con i libri che parlano di animali che sono in grado di parlare, che possono pensare. Ho amato - non so se sono conosciuti in Italia - i libri del Dottor Doolittle che aveva la capacità di parlare con gli animali, e quelli di parlare con lui. E poi i libri di Narnia...».
Dunque era disposto a credere al mondo così animistico dei fumetti?
«Certo, qualsiasi fumetto – come i Peanuts con Snoopy – avesse a che fare con animali che somigliavano a persone mi piaceva. E questo sì, in un certo senso, è magico. Ho passato ore a farli parlare tra di loro e ho creato voci diverse per loro. Credo ci fosse in me un amore innato per gli animali, che poi è stato sepolto per molti decenni e che è riemerso solo quando ho trovato la mia strada verso gli uccelli».
È appena stato in Germania per ricevere il Premio Thomas Mann. Alla domanda se credesse in Dio, il grande scrittore rispondeva: “Non sono abbastanza musicale”. “Crossroads” è un romanzo su ispirazione e crisi religiosa, ma perché abbiamo tanto bisogno di fede?
«Ebbene, mi rifaccio a “Desperate Characters”, e contrappongo a Thomas Mann Paula Fox. Fox scrive qualcosa come: “Sotto la pelle dell’esistenza ordinaria c’è solo il caos”. Sì, se si scava a fondo, si trova solo un terribile caos. Da un lato c’è l’enorme intelligenza umana, la mente che immagina l’infinito e può controllare il mondo in vari modi. Ma dall’altra siamo solo animali fatti di atomi e che presto saremo morti per sempre. Non c’è un ordine nell’universo, anche se l’intelligenza insiste su un qualche sistema per dare un senso al mondo. Ma poiché alla fine si basa sul caos non sarà necessariamente un sistema razionale. Ecco, ogni sistema si rivela un insieme di credenze non dimostrabili».
Perché questa sua storia di una famiglia molto religiosa americana è ambientata proprio negli anni Settanta?
«Perché il personaggio a cui pensavo nel progetto originale ha settant’anni nel presente, e se si sottraggono 50 anni dall’anno 2022, ci si ritrova nel 1971-72. Il motivo per cui “Crossroads” è diventato un libro è che, una volta che ho attinto a quei ricordi degli anni Settanta, mi sono sentito così a casa in quel periodo che ho voluto rimanerci per un romanzo intero».
È l’epoca in cui l’America è travolta dalla guerra in Vietnam e dalle rivolte studentesche, che poi arriveranno a Parigi e a Berlino. L’era in cui nasce quella cultura alternativa di sinistra oggi in crisi...
«Oggi è in crisi praticamente tutto. Ma si potrebbe anche sostenere, al contrario, che nei centri di potere culturale degli Stati Uniti, sono giorni buoni per i progressisti. Incoraggiati nella discussione sul privilegio dei bianchi, nel dibattito sul colonialismo, sui diritti delle donne, dal movimento MeToo alla lotta per il diritto all’aborto. Quindi, credo sia più corretto dire che la politica progressista è più in crisi in Europa. Quello che abbiamo negli Stati Uniti è il caos, certo, ma non formiamo governi come in Italia o Svezia».
Ha appena concluso un lungo giro in Europa e respirato l’atmosfera dei movimenti sovranisti e il rigurgito dei partiti di estrema destra. Cosa l’ha sorpresa di più?
«Tutti questi movimenti nazionalisti sono alimentati dal risentimento verso l’élite liberale e il suo globalismo e, in Europa, dal suo allineamento con l’Ue. Sì, penso che gran parte del risentimento che guida il trumpismo e molti dei movimenti sovranisti in Europa sia un risentimento verso una cosiddetta élite liberale istruita».
È solo una coincidenza se la scena del romanzo sia nel Midwest, regione in cui il trumpismo è forte?
«Se riuscirò a scrivere altri due romanzi dopo “Crossroads”, questo diventerà un fatto molto importante. “Crossroads” è un sobborgo abbastanza ricco di Chicago. Il protagonista Russ e la sua famiglia non hanno soldi, ma la città evidentemente sì. Hanno case grandi e impianti stereo costosi. Ma non è una vera e propria roccaforte del trumpismo, che è più legato alla classe operaia, alle persone in difficoltà, e ha il suo vero nucleo nelle aree rurali, nei piccoli centri lontani dalle grandi città».
Già, ma Trump ha i numeri per tornare al potere e crede che il suo mantra ideologico, quel suo “M.A.G.A” possa funzionare ancora oggi?
«Sarà improbabile che diventi di nuovo presidente. Ma non è impossibile. E non credo che quell’uomo abbia un briciolo di ideologia in corpo. È un artista, un intrattenitore. È come se non riuscissimo più a distinguere tra gli intrattenitori e le persone realmente qualificate per il loro lavoro. Trump ha la capacità di entrare in contatto con le vittime. O con il vittimismo delle persone. E credo che molti americani bianchi meno istruiti si sentano vittimizzati, a torto o a ragione».
Siamo alla politica del vittimismo diffuso, lei dice. E in questo senso il personaggio di Trump ricorda molto Donald Duck, no, per tornare ai fumetti?
«C’è una bella frase sempre nel romanzo di Fox “Desperate Characters”, ambientato nel 1968. In una scena passiamo davanti a un cartellone pubblicitario per George Wallace, il governatore razzista dell’Alabama che si candidava alle presidenziali, e il commento della Fox è: “La patologia chiama alla patologia”. È esattamente ciò che Trump ha saputo fare. Ha i suoi risentimenti, il suo senso di vittimismo ed è un genio nel dividere le persone in gruppi, uno dei quali può controllare totalmente. Si tratta insomma di suscitare rabbia e di svegliare un senso di attaccamento in lui, percepito come salvatore. Per questo penso che sia un intrattenitore di talento».
Se Trump è un genio nel parlare agli istinti della gente, Berlusconi, l’inventore di questa forma di populismo, è il suo maestro?
«Non ho mai pensato che fosse il modello originale per la presidenza di Trump. Certamente l’Italia è riuscita prima dell’America ad eleggere presidente un uomo d’affari semicriminale. E Berlusconi era per certi versi ridicolo, proprio come lo è Trump. C’è l’abbronzatura di Berlusconi e ci sono i capelli arancione di Trump, ma sono grossolane somiglianze. Credo che Berlusconi sia stato un uomo d’affari di successo più legittimo di Trump - Trump è sempre stato una frode. La differenza è che Berlusconi non ha cercato di distruggere la democrazia italiana. Sì, ha puntato al controllo dei media, e questo è simile a ciò che Orbán sta facendo oggi in Ungheria. Ma non ti fa disperare come le bugie di Trump. Insomma, bisogna risalire a uno come Hitler per trovare qualcuno al potere che menta così volentieri come Trump. In lui c’è la grottesca irresponsabilità, il completo disprezzo per i fatti e le leggi. Sì, temo che ricordi la Germania dei primi anni Trenta».
Nel frattempo in Italia i post-fascisti sono tornati al potere. Pensa che i movimenti sovranisti possano arrivare al potere in tutta Europa e persino negli Usa?
«Non credo che ci sia un percorso chiaro verso il fascismo negli Stati Uniti. Perché il Paese è così grande e diverso. Vivo qui in California, una delle più grandi economie del mondo e un baluardo contro il fascismo. Non vedo una deriva verso un sistema come quello della Cina o della Russia semplicemente per il modo in cui siamo strutturati, con stati davvero grandi e importanti, come New York e la California, che non vogliono avere nulla a che fare con questo fascismo. In Europa è tutto più difficile perché il nazionalismo è forte, e il potere regionale molto meno importante. Sì, per l’Europa penso che ci sia il rischio che un Paese dopo l’altro insedi governi simili a quello di Orbán e questo è preoccupante».
Ricorda come ha reagito quando ha visto in televisione, lo scorso 6 gennaio, le immagini di quei “desperados” che, a Washington, assaltavano la “White House”?
«Allo stesso modo in cui ho reagito all’11 settembre: era orribile quel che vedevo in tv! Eppure, la tendenza, comprensibile, di una rete liberale come Cnn a etichettare il fatto come una sommossa, come un “tradimento”, un tentativo di rovesciare il governo, era in qualche modo in contrasto con quanto questa folla fosse in definitiva patetica».
È stato un vero e proprio shock…
«Sì, alcune persone sono morte, ma si è trattato di una sommossa. Istigata dal Presidente. La cosa spaventosa non è stata la rivolta in sé, quanto il fatto che sia stata istigata da un presidente che vive in un mondo di fantasia in cui lui non aveva perso le elezioni».
Ma la deriva autoritaria con Orbán, Le Pen, Meloni, Trump, non esprime proprio il rifiuto di quella cultura alternativa della sinistra degli anni Settanta di cui parla nel romanzo?
«Credo che sia più complicato. Certo: applausi per le emancipazioni degli anni Sessanta. Ma se si pensa al fenomeno Trump, una star dei reality televisivi eletta presidente, questo era il tipo di scherzo che sarebbe piaciuto agli hippie. L’insofferenza nei confronti delle strutture tradizionali si può dire che affondi le sue radici nella ribellione giovanile degli anni Sessanta. Qualcosa è stato scosso e non si è più ricomposto. Da tempo sostengo che - forse senza volerlo - la ribellione degli anni Sessanta sia servita a promuovere la causa del consumismo. E che Internet, e in particolare i social media, sono l’apoteosi di questa cultura consumistica. La premessa è che ora tutti, in quanto consumatori, possano scegliersi “i fatti”. Ecco, penso che questa demolizione delle strutture epistemologiche di base sia stata parte di ciò che si è allentato negli anni Sessanta».
È partito applaudendo la cultura alternativa degli anni Settanta: mi dica allora quali erano i lati positivi.
«La straziante innocenza e sincerità, la convinzione che l’amore potesse davvero cambiare il mondo, questa è la parte che mi è rimasta impressa. E mi ha davvero cambiato. Credo che l’amore e la gentilezza abbiano qualcosa di trascendente. Credo che esista una cosa come la bontà, a cui tutti noi rispondiamo istintivamente, e che in qualche modo ci fa sentire come qualcosa di eterno. Potremmo associarla a un dio, e in questo senso forse sono un po’ credente, perché credo che la bontà esista».
Questa è la sua privata religione...
«Al centro del libro “Vita e destino” di Vasilij Grossman c’è un sermone sulla gentilezza. La gentilezza come l’unica cosa che non si può spiegare del mondo: come mai le persone sono gentili tra loro, quando non devono esserlo? Ed è molto commovente. È un romanzo scritto in un’epoca ancora peggiore della nostra, quando c’erano due poteri, uno di Stalin e l’altro di Hitler, entrambi orribili. Eppure c’erano persone che cercavano solo di essere gentili l’una con l’altra, bloccate in mezzo. È un po’ come ci si sente oggi, anche se non stiamo ancora assistendo a qualcosa di simile alla Seconda Guerra Mondiale».
Nel saggio “E se smettessimo di fingere?” suggerisce di concentrarsi su problemi ecologici concreti e di smetterla di illudersi di poter salvare il pianeta intero…
«Immagino che non vorremmo trovarci nella posizione di aver riposto tutte le speranze nell’evitare che la temperatura media globale aumenti di oltre 2 gradi in questo secolo. Sarebbe molto stupido investirvi le nostre speranze, perché ciò non accadrà. Se vi siete messi in una posizione in cui o disperate o vi aggrappate a una speranza totalmente irrealistica, è meglio la terza via, e cioè provare con cose che realisticamente potrebbero essere migliorate. La mia preoccupazione, nel breve saggio a cui si riferisce, non era tanto la speranza, quanto il senso della vita. Cercavo di ricordare alle persone che se si accetta la verità sul clima, ci si trova di fronte a tutto un mondo di cose che hanno bisogno di aiuto. Non solo gli ecosistemi naturali, i luoghi soggetti a inondazioni o a incendi boschivi, ma anche i sistemi di governo, la legge e l’ordine».
In questo mondo così complicato, e in crisi, si può credere alla capacità della letteratura di cambiare le idee e i comportamenti della gente?
«La metafora per me è che io scrivo per gli amici. Anche se non incontrerò mai quelle persone, la mia è una scrittura per amici. E di solito non entri in un’interazione con un amico pensando: “Cambierò quella persona”. Di certo, non cercherò di cambiarla dal punto di vista politico. Fondamentalmente, amo quella persona, chiunque essa sia. E credo che l’amore non voglia cambiare il suo oggetto, ma accettarlo e stimarlo».
Il messaggio di fondo di “Crossroads” è proprio l’amore. La quintessenza della letteratura è la capacità di amare?
«Sì. Non posso farne a meno, come scrittore. Devo amare i personaggi e cerco di amarli incondizionatamente. È questo che mi è sembrato il più grande passo avanti in “Crossroads“. Sentivo di essere riuscito a eliminare la presa in giro dei personaggi e di presentarli nel modo in cui vorrebbero essere visti. Siamo consapevoli dei nostri difetti, ma troviamo sempre un modo per amarci. Credo che sia un’espansione dell’idea di Flaubert secondo la quale lo scrittore dovrebbe essere come Dio, ovunque e da nessuna parte in un romanzo. Ma Flaubert, scrittore piuttosto freddo, ha trascurato di aggiungere che Dio ama le sue creature. Quindi l’onniscienza è importante, l’invisibilità anche, ma certamente anche l’amore».
Nel XXI Secolo, nell’era digitale e globale, il romanzo non ha perso senso?
«Il romanzo è ancora più importante in un’epoca come questa. Non scrivo per chi passa il giorno sui social media, ma per le persone che si sentono estranee allo spazio così brutto di Internet, così polarizzato, arrabbiato. Prendere in mano un libro è stabilirsi in un mondo in cui le cose sono più sottili. Sì, sono alla ricerca di un libro che mi ricordi cosa significa essere umani. Quindi non credo che sia già troppo tardi, ma che i buoni romanzi siano ciò di cui abbiamo più bisogno in questo momento».