intervista

Christian Greco: «Ecco i creatori dell’Egitto eterno, che modellavano il metaverso dei faraoni»

di Angiola Codacci-Pisanelli   30 novembre 2022

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Scribi. Scultori. E costruttori delle tombe, che garantivano l’esistenza nell’aldilà. In mostra a Vicenza gli artefici dei sepolcri della Valle dei Re, nelle parole del direttore del Museo Egizio di Torino

La Valle dei Re, nel cuore dell’Egitto, è uno dei siti archeologici più famosi al mondo. Le tombe scavate nella roccia e magnificamente affrescate sono capolavori senza tempo. A realizzarle però non furono artisti famosi ma generazioni di artigiani. Che abitarono per secoli in un unico villaggio posto tra la città di Luxor e il labirinto di canyon che avrebbe dovuto garantire ai faraoni un sonno indisturbato. Le voci di quel villaggio, chiamato Deir el-Medina, tornano a parlarci grazie a una mostra in programma dal 22 dicembre al 7 maggio dell’anno prossimo nella Basilica Palladiana di Vicenza (catalogo Marsilio Arte). Si intitola “I creatori dell'Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone” e racconta attraverso oggetti quotidiani e gioielli, papiri e sculture ma anche installazioni multimediali e riproduzioni in 3d la vita di artigiani che, come spiega Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino (che ne è curatore insieme a Corinna Rossi, Cédric Gobeil e Paolo Marini) avevano un compito fondamentale: garantire la vita eterna del faraone e con essa l’equilibrio dell’intera società.

Al centro di questa mostra c’è un villaggio: uno tra i mille della storia dell’Antico Egitto, ma con un’importanza particolare…
«Deir el-Medina occupa un posto unico nello sviluppo della storia egiziana. Nasce all’inizio della diciottesima dinastia, quindi intorno al 1550 a.C., e continua ad essere abitato fino al 1070. Viene fondato per volontà del faraone Ahmose I e della regina Ahmose Nefertari, ed è il posto in cui vivono gli artisti, gli artigiani e tutti quello che lavoravano alla costruzione delle tombe nella Valle dei Re e nella Valle delle Regine. Ecco perché noi li abbiamo chiamati “creatori dell'Egitto eterno”: perché sono le persone che, per usare una metafora contemporanea, creavano il metaverso che permetteva al faraone di sopravvivere. I contemporanei li chiamavano “servitori del luogo della verità”, avevano il compito di creare per il sovrano una tomba nella quale valgono regole spazio temporali completamente diverse da quelle esterne. Dobbiamo immaginare che al momento della sepoltura le decorazioni delle pareti diventano molto più di un semplice abbellimento. Esse costituiscono un nuovo spazio che per gli egizi aveva consistenza reale: il faraone è trasfigurato e pronto per nuova, eterna vita. Aspira ad essere accolto nella barca solare che gli permetterà di viaggiare assieme agli altri dei, e di compiere continuamente, e per sempre, il periplo attorno alla Terra. Il “metaverso” disegnato sulle pareti della tomba è il luogo in cui ogni notte si volge la lotta cosmogonica fra bene e il male che è fondamentale non solo per il faraone ma per la continuità stessa dell’Egitto. Finché il bene sconfigge il male e sopravvive, non solo il faraone ma l’intero Paese e tutti i suoi abitanti sono al sicuro».

Cosa sappiamo di questi artigiani?
«Al Museo Egizio abbiamo una fortuna incredibile, perché gli scavi al villaggio furono diretti da Ernesto Schiaparelli nel 1903, quindi abbiamo negli archivi le foto che documentano il momento dello scavo. Nel catalogo abbiamo arricchito la storia con il racconto degli scavi diretti dai francesi di Bernard Bruyère che subentrarono a Schiaparelli. Inoltre uno dei curatori della mostra, Cédric Gobeil, è stato recentemente direttore degli scavi di Deir el-Medina. Quindi abbiamo con noi le fonti migliori per poter comprendere come funzionava il villaggio: come le persone vivevano, come era la loro vita quotidiana, cosa studiavano a scuola, come imparavano la lingua. Questo è particolarmente importante perché gli scribi che lavoravano per le tombe dovevano imparare non solo i segni ma anche la morfologia e la sintassi di una lingua che già non veniva più parlata, il medio egiziano, la lingua rituale che dovevano utilizzare per decorare le pareti».

Ma com’era la loro vita quotidiana?
«Abbiamo testimonianze precise su alcuni aspetti: per esempio le dispute testamentarie. Queste ci permettono di capire quali fossero i rapporti tra le famiglie, e anche come veniva organizzato il lavoro. Per esempio sappiamo che nell'anno 29 del regno di Ramses III gli scribi si rifiutarono di andare a lavorare perché da due mesi non ricevevano lo stipendio, che era fatto di olio, unguenti, indumenti e cibo. Quindi dissero al faraone che sarebbero tornati a lavorare solo dopo essere stati pagati. Con questa mostra noi vogliamo indagare la dualità della vita di chi abitava in questo villaggio: da una parte ci sono i problemi quotidiani, dall’altra la costruzione dell'Egitto eterno».

Erano quindi comuni mortali a far sì che il faraone vivesse eternamente tra gli dei…
«E il fatto che si trattasse di persone come noi è un punto fondamentale di questa mostra. Metteremo in mostra una mummia ma lo faremo sottolineando le questioni etiche poste dalla nostra scelta. Come ha scritto Kathlyn Cooney in un bellissimo libro, “The cost of death”, gli egizi impiegavano tempo ed energia per fare in modo che la loro vita continuasse dopo la morte, che la morte non costituisse una cesura. Era anzi la morte considerata la “mesut”, la nuova nascita. Per mostrare rispetto per queste persone noi prima di tutto cerchiamo di dare loro un nome. E ricordiamo che il capitolo 151 del “Libro dei morti” spiega perché il corpo doveva essere conservato: solo se il corpo rimane intatto il defunto potrà avere la vita dopo la morte. Va in questo senso anche una esposizione molto significativa che è in corso in questo momento al Museo Egizio».

Di cosa si tratta?
«È una installazione dell'artista egiziana Sara Sallam ispirata al centenario della scoperta tomba di Tutankhamon. Tutte le celebrazioni lo celebrano ricordando l’oro, i gioielli, la maschera. Ma dimenticano che la sua mummia era ancora nella tomba, e che rimase incollata al sarcofago interno a causa degli unguenti che vi erano stati versati sopra. Per riuscire ad estrarla, la mummia fu fatta a pezzi. Sara Sallam si identifica in Tutankhamon che sente avvicinarsi Howard Carter: sente i colpi dello scalpello, poi i coltelli scaldati dalla fiamma ossidrica che tentano di entrare all'interno del sarcofago per staccare il corpo. A quel punto Tutankhamon comincia a pregare per cercare di fermare lo scempio della sua mummia: e prega citando le frasi rituali che sono scritte all'interno della sua maschera. Questa interpretazione artistica rovescia il punto di vista più comune rispetto alla scoperta, e ci fa riflettere su come a volte con leggerezza consideriamo le mummie come un qualsiasi oggetto. E ci dimentichiamo che il loro valore nasce dal fatto che sono resti umani, che sono persone come noi».

Il centenario di Tutankhamon ha fatto passare in secondo piano un anniversario altrettanto importante: sono duecento anni dalla decifrazione dei geroglifici da parte di Jean François Champollion. Una scoperta che ci riporta agli scribi di Deir el-Medina.
«Nella mostra noi li facciamo parlare, i geroglifici. L’esposizione è scandita da pannelli che iniziano con un testo antico, proveniente dai testi cosmografici del Nuovo Regno e dal “Racconto del naufrago”. In effetti la decifrazione di 200 anni orsono è stata un evento fondamentale: ha squarciato un velo, e ci ha fatto rientrare in contatto con gli antichi egizi. Per 1500 anni si era tentato di trovare la chiave: grazie a Champollion i geroglifici non sono più una decorazione silente ma parlano. E svelano qual è il mondo che hanno alle spalle».

Nell’Antico Egitto c’erano altri tipi di scrittura oltre ai geroglifici?
«Oltre alla scrittura monumentale, che veniva incisa sugli obelischi, nei tempi e nelle tombe, esiste una scrittura molto più corsiva detta “ieratico”: è un geroglifico corsivo, semplificato, quasi una stenografia che veniva utilizzata molto spesso nei papiri perché è più veloce ma anche più compatta, e quindi permette di ottimizzare lo spazio in pagina. Sia il geroglifico sia lo ieratico vengono usati in tutte le fasi di sviluppo della lingua, quindi sia per l'egiziano antico che quello medio, e anche per il neo egiziano. Tenga presente che fra l'egiziano antico, quello che si parlava nell'Antico Regno, e il neo egiziano che si sviluppa nel Nuovo Regno ci sono differenze fondamentali. L'egiziano antico è una lingua molto sintetica: per esempio non si vedono le desinenze de verbi, quindi il tempo del verbo si capisce solo dal contesto, mentre il neo egiziano è più esplicito. Poi nella fase più tarda si sviluppa una scrittura che a prima vista sembra simile allo ieratico ma è molto più corsiva, e che attesta anche una nuova fase linguistica: il demotico. All’inizio della nostra era, infine, si sviluppa il copto, una lingua che ha aiutato molto lo studio dell’Antico Egitto: perché è una lingua alfabetica, derivata dal greco, che usa varie lettere per quei suoni che non esistevano in antico egiziano. Il copto è stato molto utile per i lavori di Thomas Young che di Champollion perché essendo scritto in alfabeto greco era perfettamente leggibile ma presentava un vocabolario che era per più della metà uguale a quello dell’Antico Egitto».

Finora abbiamo parlato delle decorazioni delle tombe scavate nella roccia. Ma finché i faraoni sono stati sepolti nelle piramidi come si realizzava il metaverso?
«In effetti, fino alla quarta dinastia le piramidi non erano decorate, poi a partire dalla piramide di Unas nella camera sepolcrale si trovano i cosiddetti “testi delle piramidi”. La letteratura funeraria egizia a grandi linee si divide tra i testi delle piramidi dell’antico Regno, i testi dei sarcofagi nel medio Regno, e nel Nuovo Regno i testi cosmografici dell’oltretomba, quelli della nostra mostra. I testi delle piramidi sono formule magiche che riguardano l'arrivo del sovrano nell’aldilà, il suo ascendere al cielo e il suo partecipare all’ordine cosmico. Le camere sepolcrali sono completamente iscritte con i testi che vengono incisi nella roccia delle pareti. Il soffitto invece è dipinto con un cielo stellato; quasi a voler ribadire che nonostante l'imponenza di quelle montagne artificiali che sono le piramidi, il faraone non sente la pesantezza della pietra perché sopra di sé vede soltanto il cielo, con le stelle dipinte su quel meraviglioso colore che è il blu egizio».