Il collettivo transfemminista nella sua ultima installazione a Bologna riporta alla luce la condizione delle donne afghane, con un linguaggio che parla all’Italia. Sara Manfredi: «Nello spazio pubblico performiamo e proiettiamo un’idea di cittadinanza»

«La legge ti vieta di lavorare in ufficio pubblico perché sei una donna». «Il diritto di voto è soppresso: non ci saranno altre elezioni». «Non puoi studiare - il governo te lo vieta, perché sei una donna». «La legge ti vieta di ballare», «la legge ti vieta di cantare». Carattere littorio, scritta bianca su sfondo nero. Uno dopo l’altro, gli annunci si susseguono a scandire la repressione su manifesti appesi lungo tutta via dell’Indipendenza a Bologna, sotto i portici che dalla stazione portano a Piazza Maggiore. La galleria urbana animata da cinema, teatri, negozi accoglie la nuova installazione del collettivo di arte pubblica bolognese Cheap nata in collaborazione con WeWorld per richiamare l’attenzione sulla condizione delle donne afghane a poco più di un anno dal ritorno al potere dei talebani.

 

«Un momento di disvelamento», così definisce a L’Espresso l’intervento Sara Manfredi che di Cheap è una delle fondatrici. Un'occasione per portare alla luce ciò che sta succedendo alle donne afghane, «perché tutto questo silenzio è politicamente nocivo ai tentativi di chi lavora in Afghanistan e cerca di non lasciare sole le cittadine dopo il ritorno dei talebani», precisa.

La soppressione dei diritti che le donne afghane stanno sperimentando, però, sembra essere annunciata a chi si trova a passare sotto i portici della città emiliana. Alle amiche che se ne vanno a fare shopping, alla studentessa che corre a prendere il treno, alla madre che passeggia con i figli in una delle vie principali della propria città, alla professionista che va in ufficio. A tutte loro, a noi, sembra rivolgersi il monito: «Non puoi farti un selfie, il governo te lo vieta perché sei una donna». Il linguaggio, l’estetica dei manifesti sono calibrati per parlare alla nostra parte di mondo. «Abbiamo tentato di proporre un intervento decoloniale rispetto a uno sguardo spesso troppo bianco delle femministe occidentali rivolto a Paesi del sud globale. Questo è il motivo per cui abbiamo fatto questa scelta rispetto al font, optando per il carattere littorio. Lo abbiamo utilizzato per riportare l’esperienza di oppressione all’interno di una cultura patriarcale che potesse essere contestualizzata nel nostro Paese».

Destrutturare, decostruire il sistema simbolico prodotto all’interno dello spazio pubblico. «Dare voce attraverso i linguaggi visivi contemporanei a quei pezzi di comunità che non hanno parola, a cui viene negato l’accesso». Questo è il modo di operare di Cheap fin dal 2013, quando il progetto nasce come festival per poi, come si legge nella pagina online di presentazione, avere «il buonsenso di diventare altro». La trasformazione nel laboratorio che è oggi è avvenuta dopo 5 anni, «quando eravamo al punto più alto della nostra esperienza, quando abbiamo ospitato le guerrilla girls nel loro primo intervento di arte pubblica in Italia».

L’orgoglio per la propria storia traspare dalla voce che passa nel telefono mentre Sara Manfredi si reca a prendere l’aereo che la riporterà a Berlino dove vive. Tutt’altro che il tentativo di ripudiare le origini del progetto che condivide con Sonia Piedad Marinangeli, Elisa Placucci, Flavia Tommasini, quindi. Semmai la voglia di rivendicare tutto, gli errori, i successi, più di altro la natura transitoria del tipo di arte con cui hanno scelto di esprimersi.

 

«Noi lavoriamo con l’effimero. Interpretiamo una forma di arte pubblica che è antimonumentale e siamo molto a nostro agio con il fatto che il contemporaneo possa avere come caratteristica più marcata la temporaneità». Di qui anche la scelta del materiale, la carta che ha «letteralmente le ore contate perché è un materiale davvero instabile. Si scioglie, sbiadisce. Lo puoi strappare, lo puoi scrostare, lo puoi anche ingoiare. Siamo molto a nostro agio con questo tipo di intervento sul paesaggio urbano, sulla pelle della città. È un modo di stare in strada che ci appartiene».

 

Ed è su questo stare in strada che Sara Manfredi delinea la differenza tra un approccio curatoriale da museo e quello di chi deve pensare di collocare forme d’arte sullo spazio pubblico. Non si dica, ad esempio, che Cheap “espone”, semmai “installa”. E se la differenza può sembrare lessicale, la veemenza con cui Manfredi interviene durante il dialogo per ribadirla fa capire quanto invece tale differenziazione rimandi alla sostanza del lavoro del collettivo.

La differenza è nella collocazione. La natura dell’arte pubblica risiede nel tipo di accesso cui è sottoposta. Per strada, di fronte a tutti. Non ci sono limiti, barriere fisiche o economiche. La fruizione è immediata. La città, le strade, le piazze, poi, sono i nostri luoghi, gli spazi della collettività in cui tutti ci sentiamo di appartenere e verso cui proviamo una forma di possesso. «Quello pubblico è uno spazio in cui performiamo e proiettiamo un’idea di cittadinanza. Quindi se qualcosa è all’interno di questo spazio sentiamo che ci riguarda da vicino».

 

Nessuno parli di riqualificazione per descrivere l’operato di Cheap, però. Il collettivo rigetta quel concetto che negli anni è entrato a far parte di una retorica che le donne del collettivo definiscono come «diametralmente opposta» rispetto alla loro, che preferiscono parlare di riappropriazione. È un riprendersi uno spazio, il loro, a favore di tutte quelle fasce di società escluse dal mainstream del discorso pubblico. Sottorappresentate, marginalizzate, misconosciute. Cheap le riporta al centro della città, dove non possono essere ignorate, perché si raccontino da sole. «Per questo noi lavoriamo con artiste donne, con artiste Lgbtq, con artiste razzializzate e proponiamo temi che hanno a che fare con il femminismo intersezionale, per cercare di portare sullo spazio pubblico un altro sistema di segni e di simboli».

Non uno sguardo neutro. È una visione del mondo precisa e definita quella che le donne di Cheap comunicano al pubblico di cittadini e cittadine. «Noi rivendichiamo un’appartenenza ai movimenti transfemministi, quindi il nostro sguardo è uno sguardo femminista, è uno sguardo che legge la città come uno spazio all’interno del quale si producono meccanismi di esclusione e di privilegio sulle linee della razza, del genere, della classe. Non abbiamo uno sguardo neutro sulle cose, siamo posizionate».

In questo posizionamento si verifica anche la collisione tra arte e attivismo, che non sono distinguibili in quello che fa Cheap. Si alimentano nella produzione e nel lavoro delle sue protagoniste. «L’arte è spesso stata attraversata da tensioni politiche, da forme di attivismo. Noi non pensiamo che una distinzione, un’etichettatura che esclude l’una dall’altra possa essere funzionale a qualcosa. Siamo curatrici, alcune di noi sono artiste, siamo attiviste, e tutte queste cose stanno perfettamente insieme».