Dialogo
Così leggiamo il passato per abitare il presente
Come interpretare i fatti remoti. La giusta distanza del punto di osservazione. La consapevolezza dell’Io come punto di convergenza. La riflessione di due grandi storici, Carlo Ginzburg e Adriano Prosperi sulle virtù e i limiti della ricerca
Quali sono le parole giuste per comprendere e interpretare la nostra storia? Con quali strumenti possiamo leggere l’attualità? Può il metodo dell’indagine storiografica insegnarci un corretto vivere civile, una sana convivenza democratica? Ne abbiamo parlato con due dei più importanti storici italiani: Carlo Ginzburg, ora in libreria con “La lettera uccide” (Adelphi), e con Adriano Prosperi, autore di “Eresie” (Quodlibet). A partire dai loro nuovi libri, abbiamo chiesto alla storiografia di farsi “magistra vitae”, maestra di vita, per interpretare e abitare criticamente gli eventi della nostra storia.
Prosperi, fin dal titolo, il libro di Ginzburg invita ad andare oltre ciò che viene detto, a leggere fra le righe degli eventi, con una lettura paziente che mal si concilia con la velocità tipica delle nuove tecnologie. Oggi l’invito a rovistare nel non detto, a ricercare contraddizioni, anomalie e falsità finisce per eccitare il complottismo e la dietrologia.
Prosperi: «Il brusio del sospetto generalizzato e le sindromi del complotto appartengono ai contesti storici delle epidemie, con la variante attuale del loro moltiplicarsi all’infinito grazie al contesto globale e alla pervasività delle comunicazioni. Di fronte a questo contesto, l’osservatore deve armarsi della consapevolezza della sua distanza dalla materia che sta indagando e mettersi al sicuro dai cortocircuiti del sospetto sistematico. Il metodo è quello del confronto sulle fonti e della consapevolezza della propria distanza ma anche della propria contemporanea implicazione nel problema che sta indagando, e della provvisorietà delle conclusioni. Questi sono rimedi necessari per non far violenza alla fonte, senza dimenticare, da un lato, che lo storico entra in gioco con la sua realtà nel rapporto con la sua ricerca e, dall’altro, che non può giocare la parte del capocomico che muove come marionette i propri personaggi o quella del romanziere che esprime la sua visione del mondo attraverso i sentimenti dei suoi protagonisti».
Ginzburg, spesso chi parla, scrive, agisce è soggetto a limiti imposti dal potere o dalla propria forma culturale. Ma indagare quei limiti con troppa fantasia ci getta in un ginepraio di pericoli.
Ginzburg: «Chi fa ricerca non si muove in uno spazio oggettivo e trasparente, in cui la verità emerge grazie alla presunta abolizione di ogni pregiudizio. Lo storico parte da domande anacronistiche ed etnocentriche, formulate attraverso le proprie categorie e il proprio linguaggio: e però lo storico può intrecciare un dialogo con le categorie degli attori in gioco, rendendo le proprie domande via via meno anacronistiche. Ogni attore storico agisce in un contesto segnato da limiti: limiti culturali e limiti imposti dai rapporti di potere in cui è immerso. Ma questi condizionamenti non sono assoluti: se lo fossero, la critica sarebbe impossibile. Questo vale anche per lo storico, che è al tempo stesso osservatore e attore. In quanto osservatore, dovrà formulare ipotesi, senza le quali non si fa ricerca; dovrà criticare le proprie ipotesi, introiettando la figura dell’avvocato del diavolo; dovrà cercare di sostenere le proprie argomentazioni con prove, in quanto tali confutabili, come insegnò Popper».
Interrompendosi bruscamente, i saggi di Ginzburg chiedono al lettore di partecipare nel terreno delle domande aperte. Oggi la partecipazione e la pluralità si trasformano in una cacofonia di interpretazioni, tutte di pari valore. Ginzburg, l’autorità e la competenza possono essere gli antidoti contro lo scivolamento dalla democrazia all’“uno vale uno”?
Ginzburg: «Come affermava Marc Bloch, l’itinerario della ricerca, oltre alle sue conclusioni, va condiviso con chi legge. La ricerca è potenzialmente interminabile e la condivisione del percorso di ricerca ha un’implicazione democratica: fra chi scrive e chi legge c’è un rapporto asimmetrico, che però può essere messo in discussione da parte del lettore. Oggi, approfittando della rete, chiunque sembra in grado di dire qualsiasi cosa, che sia esperto o inesperto. Arrendersi a questa situazione sarebbe inaccettabile, ma il principio di autorità va maneggiato con cautela. Ho l’impressione che qualcosa di simile si sia verificato, su scala minore, con la diffusione della stampa a caratteri mobili, seguita dalla proliferazione di testi di ogni genere. Sul controllo delle argomentazioni bisogna insistere, anche se la velocità della rete e la quantità dei dati lo rende molto difficile. Uso la parola “controllo” che è ambigua, dal momento che essa indica, da un lato, il controllo scientifico dei dati, e dall’altro, il controllo di tipo politico: ma a mio parere questa ambiguità va conservata».
Prosperi, qual è il ruolo dell’autorità e delle competenze, in un dibattito pubblico che si vogliono aperti, democratici, disponibili alla scoperta sorprendente?
Prosperi: «Sono d’accordo sul fatto che autorevolezza significhi fornire al proprio pubblico prove, elementi di controllo, sapendo ciò che si dice. Il principio di autorità però è una lama a doppio taglio. Nella nostra relazione con la pandemia, chi di noi impegnati in vari settori intellettuali poteva dire alcunché, fornire elementi di prova e controllare quegli altrui? Si è imposta una specie di principio di autorità per cui solo gli scienziati potevano parlare; ma essendo essi stessi impegnati a capire qualcosa su una realtà che non conoscevano o su cui avevano informazioni insufficienti, hanno contribuito ad alimentare l’idea che la scienza ingannasse e che, dall’altro lato, qualunque opinione avesse valore».
Accogliente rispetto alla sorpresa del caso e curioso rispetto alla pluralità dei casi particolari, lo storico legge la complessità e l’eventuale anomalia. Ginzburg, oggi gli eventi particolari vengono immediatamente confusi con la verità universale: un immigrato gioca a pallone o commette un crimine, quindi gli immigrati sono qui in vacanza o per rubare. Lei invece scrive che il metodo della microstoria sovverte le gerarchie.
Ginzburg: «Il problema della generalizzazione è un problema molto complicato ed è certamente centrale nella cosiddetta microstoria. Ma non si tratta di una generalizzazione automatica, come quelle che lei cita provocatoriamente. In un mio saggio ancora in via di traduzione, “Il vincolo della vergogna”, definisco l’individuo, il caso particolare, come punto di convergenza di insiemi diversi: io sono parte dell’insieme homo sapiens sapiens, dell’insieme costituito dalla metà maschile, dell’insieme costituito dagli insegnanti nati a Torino, ... Un intersecarsi di insiemi che circoscrivono sempre di più il nostro campo di osservazione, finché si arriva all’individuo. Nell’individuo ciò che è unico s’intreccia con ciò che è generico o anche molto generico. Le generalizzazioni fasulle che lei segnala ignorano questa complessità, isolando un unico elemento, frutto di un pregiudizio. I razzismi funzionano così».
Prosperi, guardando al passato, qual è la giusta distanza da adottare? E qual è la giusta distanza dal nostro ordine culturale per guardare il presente con occhio critico?
Prosperi: «Guardare al passato con occhio critico richiede una distanza che si deve conquistare con la consapevolezza della nostra storia personale e del suo rapporto con la storia del mondo: l’io come punto di convergenza, come diceva Ginzburg. Per stabilire la giusta distanza si deve far i conti con la conoscenza che si ha di sé, con la importanza che la propria ricerca ha per sé, con le implicazioni fra la propria identità personale e la propria cultura e ciò che si va osservando. Posso raccontare la mia esperienza, collocando i miei studi di storia della religione cattolica, in quanto nato in un contesto popolare, negli ultimi anni del regime fascista, in cui l’occupazione tedesca aveva cancellato la struttura statale e l’unica istituzione sopravvissuta era la Chiesa cattolica romana. Il mio personale percorso è passato attraverso una proposta di ingresso in seminario, rifiutata. Da qui mi è rimasto il problema di comprendere che cosa fosse la religione. Domande che non mi erano affatto indifferenti, che erano iscritte nella mia persona».
Ginzburg: «Nel saggio “Svelare la rivelazione”, ho sviluppato l’idea che il prospettivismo storico si origina nel rapporto che il Cristianesimo, attraverso Paolo di Tarso, instaurò con “l’antica legge”, l’Ebraismo, liberando l’uomo dalla servitù della legge e legandolo all’autorità e al potere. Scoprendo che l’idea di prospettiva storica, al centro del nostro lavoro, ha la sua radice in una concezione del rapporto fra Cristianesimo ed Ebraismo che ha generato anche l’antigiudaismo cristiano, sono rimasto molto turbato. Un’idea intellettualmente fecondissima, che ha avuto conseguenze sinistre».
Prosperi ci ha portati allo studio della religione, così ampiamente svolto nel suo “Eresie”. L’eresia è definibile dal lato dell’eretico, del suo coraggioso strappo, e dal lato dell’istituzione, che condanna il non conforme. Si può invece distillare un significato civile dell’eresia?
Prosperi: «Paolo scrive che “è importante che ci siano le eresie”. Si recupera così una differenza specifica tra una visione dell’eresia come momento in cui si discute, si ragiona, si avanzano vie e verità diverse, e la fase in cui la verità è proprietà di un’istituzione, la quale la amministra fissando rigidamente le eresie, colpendo con l’autorità chi non condivide le verità ortodosse. Il concetto di eresia è un concetto scivoloso: rappresenta il passaggio dal lavorio attorno alla verità, a una convinzione, e il momento in cui questa viene fissata in una forma esclusiva. Adottando questo metro mobile, si incontrano eresie che sono figlie del tempo, strutture di potere caratterizzate da una forma storica e transeunte; posizioni condannate e che nel futuro saranno invece recuperate, come nel caso di Galilei. Lo studio dell’eresia permette di incontrare queste che chiamo “scommesse sul futuro”. Ma l’eresia non va esaltata: si rischia di esaltare la forma della ribellione al di là del suo contenuto; un’estetizzazione della ribellione che condanna all’immaturità un’educazione alla libertà, trascurando tutta la complessità che l’esercizio della libertà comporta. Rispetto al nostro presente, pensiamo al grande rischio consistente nell’emersione, sul terreno di un ribellismo immaturo, di eretici velleitari, che impedisce la formazione delle rivolte che davvero servirebbero. In generale, si vede già fin troppo diffusa una penalizzazione di una crescita lenta, di una formazione giovanile, dell’indipendenza».
Ginzburg, il rapporto fra eresia e scienza è interessante. Prosperi scrive di Bruno e Galilei, scienziati eretici. Oggi chi si autoproclama eroe del libero pensiero descrive la scienza come detentrice di un potere contro cui ribellarsi.
Ginzburg: «Questo tipo di discorso vola basso. Penso che argomentazioni come quelle dei no-vax siano miserabili e irresponsabili: affermare la propria libertà individuale mettendo a rischio quella altrui è una caricatura sinistra del neoliberismo e delle sue implicazioni. Per rialzare un po’ il livello del discorso tradurrei il rapporto tra scienza ed eresia in termini diversi: quelli proposti dallo storico della scienza Thomas Kuhn, che parla di paradigmi scientifici e di anomalie che quei paradigmi non sono in grado di spiegare. Da queste anomalie sono nati nuovi paradigmi, come nel caso del sistema eliocentrico. Tutto ciò ci riporta all’importanza della prova e della confutabilità delle ipotesi: ovviamente, non basta l’idea balzana del primo che passa a modificare un paradigma scientifico».