Scrittore corsaro. Voce profetica. Poeta maledetto. Capro espiatorio. A cento anni dalla nascita continua a inquietare i conformisti. In un Paese non più suo, abitato dal vuoto

Pier Paolo riposa oggi accanto alla mamma Susanna, in una piccola tomba con la lapide sporca, annerita dal tempo, che si fa fatica a vedere. «Carissima pitinicia», si rivolgeva a Susanna, «in Casarsa quello che conta è la campagna attorno, con i suoi orizzonti e i suoi angoli segreti». A Casarsa della Delizia, sulle sponde del fiume. «Ho voglia di essere dentro il Tagliamento, a lanciare i miei gesti uno dopo l'altro nella lucente concavità del paesaggio. Il Tagliamento, qui è larghissimo. Un torrente enorme, sassoso, candido come uno scheletro...», scriveva all'amico Luciano Serra il 24 giugno 1943.

 

Nella casa di famiglia che oggi ospita il Centro studi dedicato a lui ci sono la scrivania di Pier Paolo, i libretti con le sue poesie dialettali, i ricordi di Maria Callas, con la diva ripresa in macchina nel piccolo paese mentre firma autografi. Le fotografie del funerale con la folla che invade i campi attorno al cimitero, Sergio Citti, Ninetto Davoli straziato dal dolore e abbracciato alla madre, Laura Betti, Vincenzo Cerami, l'orazione funebre di padre David Maria Turoldo, come un dialogo a distanza tra il figlio e la madre: «C'è troppa violenza su Roma. Non c'è un fiore più che sbocci in questa periferia romana, e non un alito di vento che ne spanda il profumo, e non un prete che preghi in questo anno santo...». Con la cinepresa sta riprendendo il funerale l'operatore della Rai Miran Hrovatin che sarà ucciso nel 1994 in Somalia insieme alla giornalista Ilaria Alpi.

 

«Fontana di aga dal me país. / A no è aga pí fres-cia che tal me país. / Fontana di rustic amòur», aveva scritto Pasolini nella dedica in friulano a Casarsa che apriva la raccolta “La meglio gioventù” pubblicata nel 1954. «Fontana d’acqua del mio paese. / Non c’è acqua più fresca che nel mio paese./Fontana di rustico amore». Un atto di amore e di fiducia nel futuro. Venti anni dopo, nel 1974, il poeta aveva pubblicato la “Seconda forma de La meglio gioventù” e ritorna a Casarsa con una nuova dedica. Amara: «Fontana di aga di un país no me. / A no è aga pì vechia che ta chel país / Fontana di amòur par nissùn». Fontana di un paese non mio. Non c’è acqua più vecchia che in quel paese. Fontana di amore per nessuno...». L’ardore giovanile aveva lasciato il posto al disincanto. In quei venti anni si era consumata la mutazione antropologica del popolo italiano denunciata da Pasolini negli scritti corsari. Il poeta costretto a far sentire la sua voce in «un paese non mio», un paese non più suo, abitato dal vuoto.

«Intanto sono di una tristezza senza pari, continuamente in lotta con gli avvenimenti della vita, troppo belli e dolci per essere goduti. Non mi soccorre la presenza di un qualsiasi avvenire, perché amo troppo il presente, lo amo con una violenza uguale al ricordo, alla memoria. Qualunque cosa mi capiterà, sarò felice, perché io vorrei rimanere immobile in questi giorni, in questa età, in questa infelicità...», aveva scritto a Franco Farolfi nel 1943. A cento anni dalla nascita a Bologna, il 5 marzo 1922, Pier Paolo Pasolini continua a essere voce profetica, scrittore corsaro, poeta maledetto. E un corpo. Il corpo di Pasolini, seviziato dopo l'omicidio a Ostia nella notte tra l'uno e il 2 novembre 1975, sbattuto in copertina a colori, ridotto a strofinaccio insanguinato da chissà chi. Un rito sacrificale. Un capro espiatorio. «Sono come un gatto bruciato vivo,/pestato dal copertone di un autotreno/ impiccato da ragazzi a un fico,/ come un serpe ridotto a poltiglia di sangue/un’anguilla mezza mangiata/ma ancora con almeno sei delle sue sette vite-/le guance cave sotto gli occhi abbattuti,/i capelli orrendamente diradati sul cranio/-un gatto che non crepa».

 

Un corpo, un gatto che non crepa, un fantasma. Ne parlo con Dacia Maraini nella sua casa romana al quartiere Flaminio. La scrittrice sta per pubblicare per Neri Pozza “Caro Pierpaolo” (pp. 240, € 18). Un libro di lettere all'amico che non c'è più, ricche di ricordi personali: i viaggi, il mare, la cucina, gli occhi di Pier Paolo «color cioccolata», «una sera eravamo seduti a un tavolo che si affacciava sul mare. Portavi un piccolo anello con un turchese incastonato e spolpavi il pesce che io avevo cotto per te...». E i sogni di questi decenni senza Pasolini: le dune di Sabaudia «con il cappotto che ti svolazzava tra le gambe», una strada africana e «un fumo lontano», «i tacchi dei tuoi stivaletti da gaucho sul tetto della mia casa di Roma».

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«Viene spesso a trovarmi nei sogni. Anche ora», racconta la scrittrice. «Aver scritto su di lui e a lui, con le lettere, ha stimolato i ricordi scomparsi da tempo. Di quella volta, per esempio, che in un paesino africano contrattammo con un uomo una dozzina di uova con cui volevamo farci una frittata, dopo giorni di scatolette. Ma quando le rompemmo, erano piene di sabbia. Alberto ne rise, lui se ne stupì e diventò per lui un modo di dire. Quando qualcuno provava a ingannarlo chiedeva: ancora uova di sabbia?».

 

Uova di sabbia, sogni e un corpo gettato nella lotta. «Pier Paolo nella scrittura appariva aggressivo, violento, di persona era invece mite, dolce, armonioso, un uomo timido e introverso. Ha pagato tutte le sue contraddizioni. La sua non era una postura o una retorica presa per interesse personale. Il suo è un corpo martirizzato, è stato attaccato, violentato, brutalizzato. Un corpo di martire per gli indifferenti. Nel Vangelo lui stesso si è identificato in una figura cristologica, mettendo sua madre a interpretare la Madonna. Susanna per lui era tutto. Dopo la sua morte la andai a trovare e apparecchiò con tre tazzine, “noi intanto prendiamo il caffè, Pier Paolo arriva tra un po’”. Era una finzione, ma per lei il figlio era vivo. E tutte le donne per lui erano madri: Elsa Morante, Laura Betti, l'amica Silvana. Maria Callas era umile, modesta, spaventata da Pier Paolo, lei che non si considerava un’intellettuale. Lo amava perché veniva da uomini volgari, prepotenti e interessati, trovava in lui una delicatezza e una dolcezza che non trovava negli altri. Lo voleva sposare, volevo convincerlo a cambiare dall’omosessualità, me lo chiese. A me capitò di tenerlo in braccio in un ristorante, aveva avuto un attacco di ulcera ed era svenuto, per mezz'ora mi sono sentita sua madre. L'utero della madre era il luogo dove avrebbe voluto tornare, per lui era il paradiso, per questo era contro l’aborto».

 

I morti per noi sono silenziosi e assenti, per gli arcaici invece rivelano i pensieri nascosti dei vivi, cosa rivela Pasolini dei nostri pensieri? «Ci rivela che non si può nelle nostre discussioni ideologiche trascurare il corpo. Il corpo c'è e bisogna tenerne conto. Oggi lo sappiamo meglio, il mondo si è diviso sul corpo: la pandemia, il vaccino. La Chiesa paga il prezzo di non aver mai affrontato il corpo e l'eros. Nelle scuole non si è mai fatta una educazione ai sentimenti, all'essere umano nel suo rapporto con il corpo. Abbiamo puntato sul cervello e sulla psiche come se fossero separati dal corpo. Invece ogni esperienza intellettuale passa attraverso il corpo. Non esiste una conoscenza solo cerebrale. Per Pier Paolo era diverso. Ha vissuto in un’epoca in cui le ideologie erano molto forti e il corpo era diviso. Nel corpo collettivo che erano la Chiesa, ma anche il partito il corpo singolo doveva sparire, da qui venivano fuori le perversioni. In questo Pasolini è attualissimo. Era un solitario anarchico. Contro l’istituzione, la scuola pubblica, lui che era stato insegnante, contro le femministe e contro il movimento omosessuale. Aveva un’antipatia verso tutto ciò che gli appariva come una rivendicazione. Se oggi fosse vivo forse condividerebbe le stesse idee di Greta Thunberg, ma sarebbe diffidente con l'organizzazione di queste idee. Nell'organizzazione vedeva ciò che odiava più al mondo, lo spirito piccolo-borghese».

 

Pasolini ha avuto rapporto viscerale con il Paese attraversato dalla violenza, l’istinto, il fascismo come irrazionalità nella storia. Nel suo ultimo pomeriggio di vita, prima di uscire per cena, Pasolini confidò a Furio Colombo per La Stampa le sue inquietudini: «Ecco il seme, il senso di tutto. Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo all'intervista, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”». «Ma non pensava di morire», reagisce Maraini. «Non sono d’accordo con i suoi amici, non voleva morire. Sfidava la morte, ma era un atto di vita. Di certo era odiato, minacciato. Oggi è un idolo, ieri lo rifiutavano. Ricordo una sera al teatro Quirino io e lui, in una pausa dello spettacolo siamo andati al bar, penso ancora a cosa successe, la gente si allontanò, come se fosse un appestato. Non erano politici o fanatici, era un pubblico anonimo, un pezzo di borghesia. Erano un’immagine del Paese che provava per lui repulsione, di un’intera società che gli si rivoltava contro. Veniva rifiutata non la sua omosessualità, ma la sua critica al potere. Io sapevo che non poteva essere morto perché aveva provato a violentare un ragazzo. Semmai era masochista, ma non sadico, non era violento. Sono andata a trovare Pino Pelosi in carcere, trovai un muro di gomma, poi dopo trent’anni disse che non era stato lui. Io non l’ho mai creduto».

 

«La morte non è/nel non poter comunicare/ma nel non poter più essere compresi», scrive Pasolini in “Una disperata vitalità”. Cosa non abbiamo compreso di lui? «La sua coscienza civile e critica che ci manca. È stato un intellettuale onesto e sincero. La sincerità è legata al rischio, la sincerità è vera e grande quando rischi qualcosa. Come Giordano Bruno o Giovanni Falcone. In questo momento non vedo molte persone che in questo Paese dicono la verità rischiando», conclude Dacia Maraini. «A me manca la sua tenerezza. Nell’ultima lettera che gli scrivo parlo del sogno gioioso di un ballo, in cui sembrava felice, finalmente libero dai sensi di colpa, la rabbia, la malinconia, la fuga. Così voglio ricordarlo, con allegria. E continuo a sognarlo».