L’invasione russa ha riportato al centro la parola femminile. Svelando, una volta di più, la sua assenza dal discorso pubblico. E il bisogno di cambiare linguaggio

Tre donne anziane. La prima, Svetlana Petrovskaja, è un’insegnante di storia e anche la madre di Katja, l’autrice del bellissimo “Forse Esther”. Da Kiev lancia un videomessaggio su YouTube diretto alle donne russe. Chiede loro di non mandare i figli in Ucraina perché uccidono i civili e perché, pur giovanissimi, sono morti a migliaia. Ricorda che i nazisti li hanno sconfitti assieme russi e ucraini. La seconda è l’artista e attivista Yelena Osipova che era stata bambina durante l’assedio di Leningrado. L’hanno arrestata più di una volta con dei cartelli pacifisti che le arrivavano ai polpacci. Prima di lei, una coetanea protestava contro l’arresto gridando nient’altro che il nome dei sopravvissuti all’assedio agli agenti antisommossa. Tre donne che non sembrano aver paura di niente proprio perché sono vecchie e scampate al peggio del secolo passato. Tre vecchie che tra il presente dell’invasione e la memoria collettiva creano un cortocircuito, una narrazione da “antenate” che esce dai canoni.

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Gran parte del dissenso che abbiamo visto in Russia ha avuto volti di donna: Marina Ovsyannikova che irrompe nel tg di Stato, le attiviste portate via a forza persino se esibiscono un foglio bianco, la giornalista esule Oksana Baulina uccisa da un missile russo lanciato su Kiev. Dall’Ucraina sono giunte le immagini di donne ammassate nei rifugi, donne che spingono i figli sui treni stracolmi, donne colpite dalle bombe, donne che preparano bottiglie molotov, donne arruolate e cadute. Infine, c’è l’Italia dove l’orrore di questa guerra tocca le donne in modo più diretto.

 

Mentre lo spazio del discorso pubblico si è riempito di opinionisti e di esperti - al solito, prevalentemente uomini - negli scambi che le donne italiane intrecciano con le donne ucraine è cominciato subito un incalzarsi di «come stanno i tuoi, che cosa possiamo fare per voi, ti abbraccio forte». Nel diventare, secondo un’antica tradizione, le referenti che organizzano gli aiuti umanitari o l’accoglienza dei profughi, ma anche nei semplici sfoghi sulla tragedia in cui sono precipitate, queste donne di cui si conosce il nome o tutta la storia, quegli scambi generano nuove conversazioni: con le amiche, le vicine, le colleghe, le madri della chat della classe. Non significa che le donne siano “per natura” empatiche, specie in un ambito come quello del lavoro domestico, governato letteralmente dal rapporto “serva” e “padrona”. Ma questi spazi tradizionalmente femminili - la casa, la scuola, i luoghi di cura - configurano delle relazioni tra persone che hanno un corpo e una voce. Nell’interazione quotidiana è difficile sottrarsi a un minimo di ascolto, negare una parola di conforto, “parlare sopra”, silenziare, oscurare.

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Questa messa in scena di un mondo diviso in due dimensioni parallele, una amplificata e visibile, l’altra quasi per nulla, è debitrice di una lettura finita poco prima dello scoppio della guerra - “Lo spazio delle donne” di Daniela Brogi (Einaudi). Docente universitaria di letteratura italiana, ma anche cultrice di cinema e di arti visive, Brogi trova nei termini cinematografici del “fuori campo” e del “fuori campo attivo” il perno concettuale del suo saggio condotto con grande chiarezza argomentativa.

 

«Parleremo di spazi, proporzioni, disparità, volumi, di fatti e di memoria, di ragazze in corsa, di persone giovani; anche di come “maschile” non sia sinonimo di “patriarcale”; o di quanto il femminismo sia un capitolo fondamentale della storia della modernità, oltre che un capitale culturale enorme. Le vicende, le opere e le esistenze di metà dell’umanità sono state lasciate ai margini della storia, formando una zona fuori campo che d’altra parte, come accade al cinema, va messa in dialogo e in tensione critica e creativa con il centro dell’inquadratura; non si tratterà dunque di infilare polemicamente delle tessere assenti, né di rappezzare i buchi, o di aggiungere nomi tanto per far numero, ma di cambiare linguaggio e prospettiva, di formare un nuovo mosaico».

 

Niente canone rivisto né “controcanone” femminile, bensì un ragionare in dialogo con le opere di molte autrici che tiene sempre conto delle donne “fuori campo”. Brogi chiama in causa «l’interstizio, una figura di spaccatura prodotta a colpi di silenzio; uno spazio, insomma, rotto, oppure scollato, intendendo la possibilità che nel campo immaginativo possano trovarsi e riflettersi, molte volte, anche specifiche forme espressive e stili dell’identità destabilizzata e del trauma; o della sofferenza di guerra…». E cita l’esempio di Svetlana Aleksievič, vincitrice nel 2015 del premio Nobel per «la sua scrittura polifonica, monumento al coraggio e alla sofferenza del nostro tempo», secondo la motivazione della giuria di Stoccolma. Di madre ucraina e di padre bielorusso, Aleksievič ha dedicato il suo esordio alle donne dell’Armata Rossa.

 

A rileggere “La guerra non ha un volto di donna” (Bompiani) si intuisce che non poche delle intervistate provenissero dalle zone oggi di nuovo martoriate. All’origine del libro c’era stata la scoperta che «tutto quello che sapevamo della guerra ci era stato trasmesso da voci “maschili”. Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione “maschile” della guerra. Nel silenzio delle donne. Nessuno, tranne me, ha mai chiesto niente a mia nonna, a mia madre. Tacciono persino quelle che sono state al fronte. Se pure all’improvviso cominciano a ricordare, non raccontano la loro guerra “femminile” ma quella “maschile”. E solo in casa o, piangendo, nella cerchia delle amiche veterane, si mettono a narrare la propria guerra. Ed è una guerra sconosciuta». E poche pagine più avanti. «La guerra “al femminile” ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti. E anche parole sue. Dove non ci sono eroi e strabilianti imprese, ma semplicemente persone reali impegnate nella più disumana delle occupazioni dell’uomo». 

 

Per i censori sovietici tutto questo offendeva la celebrazione della “Grande Guerra Patriottica”. Aleksievič fu licenziata e poté pubblicare il suo primo libro solo nel 1987, durante la perestrojka. Nel 2015 decise di inserire delle parti censurate o autocensurate nell’edizione ampliata che troviamo attualmente in commercio. Aleksievič ha dunque creato la sua scrittura polifonica proprio a partire dall’urgenza di togliere le donne da quel “fuori campo” di cui parla Brogi, sostituendo al silenzio un coro di voci femminili. La voce in prima persona che tiene insieme il palinsesto si intona alla semplicità delle testimonianze, ma dichiara sin dalla versione originale che ha un’intenzione letteraria. Basta però cercare “Svetlana Aleksievič” su Wikipedia per riscontrare che ancora oggi, nonostante il Nobel, la qualifica di “giornalista” preceda quella di “scrittrice”.

 

Brogi riflette sulla persistente attitudine di sminuire il lavoro creativo delle donne, affrontando la questione sia attraverso delle opere prese in esame che da una più ampia prospettiva di critica culturale. Il sostrato sessista denunciato nel suo saggio riemerge puntualmente nelle polemiche sul Nobel assegnato in ossequio al “politicamente corretto”. L'idea che sia stato tradito il “puro merito” si rafforza quando l’opera premiata è per giunta in qualche misura femminista. Il femminismo, constata Brogi, è stato l’unica rivoluzione riuscita, ma viene ancora considerato “cosa da donne” che non merita il riconoscimento di altri “ismi”. In realtà, quasi tutte le contestazioni del Nobel possono essere lette nel quadro interpretativo proposto dal suo libro. Le scelte con cui l’Accademia di Svezia porta al centro della scena ciò che era “fuori campo” risultano velleitarie a chi ha introiettato la convinzione che il “valore universale” non possa venire da quei margini. E solo il Nobel per la letteratura - pur assegnato, come tutti gli altri, per dei contributi “al benessere dell’umanità” - è criticato a partire da un preconcetto verso un’opera che nasca - anche - da istanze etiche, civili e politiche, come se l’autonomia creativa fosse preclusa a chi scrive contro un’esperienza di marginalizzazione.

 

Olga Tokarczuk, Herta Müller, Elfriede Jelinek e Svetlana Aleksievič hanno percorso strade letterariamente diversissime, sebbene abbiano in comune l’origine centro-est-europea e l’interesse per le zone d’interstizio, direbbe Brogi, che esplorano il trauma e l’identità destabilizzata. Nel dicembre dell’anno scorso indirizzarono una lettera aperta alle istituzioni europee per chiedere un duro intervento nella crisi dei migranti intrappolati al confine tra la Polonia e la Bielorussia. Colpiva che fossero solo donne a condividere quell’uso politico del prestigio letterario ottenuto grazie al Nobel. E che nessuna fosse mai stata presente nel discorso pubblico nei modi tipici dell’intellettuale impegnato. Vale anche per Svetlana Aleksievič, l’ultima leader dell’opposizione a restare a Minsk finché a proteggerla dalla repressione non bastava neanche il Nobel. Intervenuta a una manifestazione berlinese di solidarietà con l’Ucraina, ha parlato dell’ «odio fisico di Putin verso le ragazze», restituendo anche a quest’ultima guerra un volto di donna.