La disobbedienza civile. L’impegno pubblico. La passione per il confronto. Tra mostre e libri, perché il pensiero della politologa è in piena rinascita

Chissà che non si possa importare anche in qualche città italiana la mostra che il Literaturhaus, la Casa della Letteratura di Monaco, ha dedicato a Hannah Arendt. Il successo di pubblico e di critica è andato molto al di là delle aspettative e ha premiato alcune scelte culturali non ovvie degli organizzatori. «La filosofia non si può esporre», ha dichiarato sin dall’inizio Monika Boll, la saggista che ha curato la mostra. Di qui la scelta di puntare invece sul ruolo che Arendt ha svolto come intellettuale e pensatrice politica nell’arco di tempo che va dalla metà degli anni Trenta alla metà degli anni Settanta.

Non per caso il titolo della mostra era “Il rischio dello spazio pubblico”, un’espressione ripresa dalla celebre intervista del 1964, dove Arendt, in un dialogo serrato con Günter Gauss, riassume alcune tappe della propria vita, prima e dopo l’esilio, ma soprattutto precisa il proprio impegno, la modalità e lo scopo dei propri interventi. Ciò che l’ha distinta infatti da altri pensatori coevi è stata la sua allergia alle idee astratte, la consapevolezza che un esercizio del pensiero fine a se stesso, separato dalla società civile, aveva portato all’ascesa del nazismo.

Se il peso di Arendt è così determinante nel Novecento, che ormai è inconcepibile senza il suo nome, e se oggi, in pieno XXI secolo, c’è una vera e propria rinascita del suo pensiero, è perché lei ebbe il coraggio di riportare la filosofia nella pólis, esponendosi a ogni sorta di critiche, controversie, diatribe.

Il percorso della mostra è stato perciò suddiviso in dieci grandi tappe che scandiscono la storia di Arendt come public intellectual. Per ricordare solo alcune: la sua esperienza come rifugiata e apolide, priva di diritti politici e di diritti umani, le sue riflessioni sul lager di Auschwitz, baratro della civiltà (corredate dal modello del crematorio di Auschwitz-Birkenau II ricostruito da Mieczyslaw Stobierski), il reportage sul processo ad Adolf Eichmann tenutosi a Gerusalemme, gli interventi contro il razzismo negli Stati Uniti, la sua presa di posizione a favore delle proteste studentesche del ’68. Non mancano però i capitoli della sua vita privata. Primo fra tutti quello della relazione con Martin Heidegger, il suo maestro, il suo amante e, in seguito, il punto di riferimento della sua riflessione.

Che Arendt abbia accettato i rischi di un’esposizione nello spazio pubblico anche per distanziarsi dalla filosofia di Heidegger e dalla sua complicità nel Terzo Reich? Certo è che nella mostra – che esordisce con la celebre frase di Arendt scritta a caratteri cubitali “Se si viene aggrediti in quanto ebrei occorre difendersi come ebrei” – emerge uno spaccato dell’antisemitismo in Germania tra le due guerre mondiali. È quell’odio di cui Arendt comprende presto la portata, ben prima dell’ascesa di Hitler, e che non smette di denunciare anche in seguito. Lo attestano, ad esempio, le difficoltà incontrate nella pubblicazione del suo libro su Rahel Varnhagen (in italiano: “Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea”, Il Saggiatore 2017) ancora nel dopoguerra, quando la condizione posta dal redattore tedesco era quella di eliminare nel sottotitolo la parola “ebrea”.

Parte integrante e originale della mostra sono anche i circa centocinquanta oggetti esposti che provengono dal Deutsches Historisches Museum di Berlino, dalla Library of Congress di Washington, dallo Jüdisches Museum di Francoforte e da altre istituzioni.

Non si tratta solo di foto e documenti, ma anche di oggetti privati: la ventiquattrore logora, da cui Arendt non si separava mai, la mantellina di pelliccia, la spilla preferita, la macchina fotografica Minox, acquistata proprio a Monaco, con cui amava fotografare le persone significative della sua vita, da Karl Jaspers alle amiche Anne Mendelssohn Weil e Mary Mc Carthy. Ne viene fuori il ritratto di una donna amante della moda, aperta al mondo, contraddistinta, anzi, dal “genio dell’amicizia”, come ebbe a dire di lei Hans Jonas, ma al contempo anche ferma e ostinata nelle sue idee e nei suoi giudizi, pronta alle discussioni più infuocate, ai diverbi più aspri, senza mai tirarsi indietro. Così, d’altronde, la ricordano in molti.

La mostra, che si è aperta nell’ottobre 2021, ancora in piena pandemia, si chiude in questi giorni con un bilancio talmente positivo che verrà replicata in altre città tedesche – e non solo. Il motivo della riuscita sta, però, anche nell’idea degli organizzatori che hanno inscritto questa iniziativa in quella più ampia di un rilancio della democrazia (“Democracy will win”) e hanno arricchito la mostra con una serie di dibattiti sui temi lanciati da Arendt, da quello dell’accoglienza ai rifugiati a quello del dominio totalitario, da quello della disobbedienza civile a quello dell’articolazione mai neutrale dello spazio pubblico.

Non è necessario concordare con le tesi di Arendt, con le sue analisi pionieristiche, le sue idee talvolta spregiudicate, le sue proposte dirompenti. D’altronde si tratta di una pensatrice che non si lascia incasellare facilmente, che si sottrae alle etichette. Era di sinistra? Liberale? Libertaria? O addirittura – come alcuni pretenderebbero – conservatrice? Non è facile rispondere. Certo è che, al di là delle controversie, Arendt non solo ha saputo raccogliere la sfida ed essere una intellettuale pubblica all’altezza del compito, ma è riuscita anche a rappresentare concretamente la possibilità di un pensiero che si traduce in capacità di giudizio storico e politico.

Per questo resta un punto di riferimento e un esempio imprescindibile in un’epoca, come questa, in cui l’oscurità e l’accecamento sembrano prevalere rendendo sempre più ardua l’impresa di leggere il presente. L’inventario filosofico, che lei contribuisce a rinnovare dal fondo, è una mappa per orientarsi nel mondo odierno, come ha osservato Richard J. Bernstein nel suo libro “Why Read Hannah Arendt Now” (Perché leggere Arendt ora), pubblicato purtroppo solo in inglese nel 2018 e non ancora in italiano. Ma esemplare è soprattutto il suo modo di intervenire nella discussione pubblica con quella capacità di rivolgersi a tutti e di affrontare con equilibrio, ma anche con coraggio, le questioni più urgenti. Fuori dagli schemi accademici e senza ricorrere alla terminologia tecnica, spesso un esercizio di potere che serve solo ad allontanare i più dalla filosofia.

Proprio questo la distingue da altri nomi del Novecento, non meno rilevanti, le cui idee, però, sembrano sempre più appannarsi e finire sullo sfondo. Diversa è invece la sorte toccata a Hannah Arendt che oggi vive una vera e propria rinascita. Forse anche per questo è tempo di rivedere il modo in cui, quasi per precauzione, presentava se stessa semplicemente come una politologa. In realtà si inaugura con lei una nuova figura di donna e di intellettuale che entra in scena nello spazio pubblico con passione e consapevolezza inedite.