Nel nostro Paese non si è mai scritto così tanto per la tv. Ma per realizzare serie rivolte a un pubblico giovane e globale gli autori senior non bastano. Così si afferma una nuova generazione di talenti. Ecco cosa pensano Alice Urciolo, Lisa Nur Sultan, Peppe Fiore, Sebastiano Melloni e Antonio Le Fosse del collettivo Grams

Se l’Italia non è un Paese per giovani, una categoria fa eccezione: gli sceneggiatori delle serie tv. Si sta affermando una nuova generazione di autori, corteggiati da case di produzione e piattaforme digitali internazionali, sempre più numerose nel mercato italiano. Se le sale cinematografiche restano semivuote a causa della pandemia, infatti, l’offerta dei broadcaster si arricchisce di serie tv destinate a durare lo spazio di una stagione, stritolate dalla concorrenza. Talvolta invece si consolidano come “Strappare lungo i bordi”, la serie animata scritta e diretta per Netflix da Zerocalcare, già al lavoro sul prossimo progetto. Per pensare prodotti rivolti a un’audience globale, giovane e abituata a consumare video in streaming, non bastano gli sceneggiatori senior. E così autori ancora sconosciuti al grande pubblico si ritrovano a scrivere a getto continuo: creano personaggi in sintonia con i cambiamenti della società e introducono temi potenzialmente universali. Perché la guerra dello streaming ha uno scopo: realizzare una serie tv nel nostro Paese e trasformarla in successo internazionale.

 

Alice Urciolo

Alice Urciolo, 28 anni, svetta tra i talenti della sua generazione. Cresciuta a Priverno, vicino a Latina, a vent’anni si è trasferita a Roma. Dopo il master di Rai Fiction in collaborazione con la scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia ha scritto Skam Italia, la serie creata da Ludovico Bessegato per TimVision (ora su Netflix), che racconta la vita di un gruppo di liceali romani a confronto con i temi dell’adolescenza. Di recente, Urciolo ha scritto con Bessegato anche la quinta stagione (oltre alla terza), con un nuovo gruppo di personaggi femminili, e con lui ha lavorato anche a “Prisma” (Amazon Prime), serie di formazione che ruota intorno alla relazione tra identità, aspirazioni, aspetto fisico e orientamento sessuale di un gruppo di adolescenti di Latina. «Con le piattaforme digitali è cambiato tutto, il mercato si è allargato, vengono richieste più voci. E noi giovani sceneggiatori siamo in grado di offrire storie diverse», dice Urciolo, che fa parte della giuria di “La bottega della sceneggiatura”, il percorso di coaching avviato da Netflix e Premio Solinas per aspiranti professionisti. Nel frattempo la sceneggiatrice ha scritto anche il suo romanzo d’esordio, “Adorazione” (edito da 66thand2nd), nella dozzina del Premio Strega 2021, la storia di una ragazza uccisa dal fidanzato e dei suoi amici, che a distanza di un anno sono ancora divisi tra il dolore di quel trauma e il bisogno di un’adolescenza normale. E adesso ha in cantiere un nuovo romanzo. «Quando scrivi un libro sei sola davanti alla pagina, come il lettore che lo leggerà. Quando lavori a una sceneggiatura, invece, sei l’anello di una catena che prevede tanti ruoli diversi. Più vado avanti, più vedo differenze tra i due tipi di scrittura», aggiunge Urciolo.

 

Nel film “Per lanciarsi dalle stelle” (nei prossimi mesi su Netflix, regia di Andrea Jublin), la sceneggiatrice ha messo al centro Sole Santoro, una ragazza nata e cresciuta a Conversano, in Puglia, che decide di cambiare vita e trasferirsi altrove, ma deve combattere con i suoi disturbi di ansia: «Racconto storie che sollevano domande nuove: identità di genere, orientamento sessuale, salute mentale, disabilità e grassofobia», conclude Urciolo: «Sono temi su cui ci confrontiamo con gli altri sceneggiatori della mia età, perché la nostra società sta cercando di diventare più inclusiva. Basta cambiare punto di vista per creare una storia completamente inedita».

Lisa Nur Sultan

Anche se la strada per i diritti è lunga, negli ultimi anni l’Italia ha attraversato una trasformazione senza precedenti. È diventato un Paese multietnico in maniera spontanea, carsica, malgrado l’inerzia delle istituzioni. Lisa Nur Sultan, a Roma da quasi vent’anni, è una G2. Padre giordano e madre dell’Appennino piacentino, incarna da sempre questa identità di frontiera. «Si tratta di una condizione che conosco molto bene: in Giordania sono italiana e araba in Italia», sintetizza Sultan, che ha iniziato a fare la sceneggiatrice dopo la laurea in Economia alla Bocconi. «Oggi in tv si presta maggiore attenzione a questi temi, ma ogni volta che mi hanno proposto un progetto che parlasse di Islam, razzismo o integrazione ho declinato l’invito per paura di scadere negli stereotipi», sottolinea. La sceneggiatrice ha scritto per il cinema (“Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini sulla storia di Stefano Cucchi, quattro David di Donatello nel 2019) e per la tv, di recente la serie “Studio Battaglia” per Rai Fiction, nastro d’argento 2022 per la scrittura e il cast femminile. La vicenda di uno studio legale gestito da donne, in cui le storie professionali delle protagoniste si intrecciano con la loro vita privata. «Mi sono divertita a raccontare i diritti civili e l’educazione sentimentale. Coppie omogenitoriali, proprietà degli embrioni, privacy. Il racconto del femminile oggi è diventato mainstream, ma un tempo quando facevo notare in una riunione di lavoro che la rappresentazione delle donne risultava svilente venivo derisa come la femminista della stanza», aggiunge Sultan, ora impegnata su uno dei progetti in cantiere più attesi: la versione italiana di “Call my agent!” (su Sky e in streaming su Now, regia di Luca Ribuoli), la fortunata serie tv ambientata in un’agenzia di talenti parigina, ironica e divertente. Per la sceneggiatrice l’ironia è sempre stata un’arma fondamentale ma rischiosa. «Oggi devo sorvegliarmi molto più di prima: ho paura di incappare in qualche battuta che potrebbe ritorcersi contro di me. È difficile immaginare cosa potrebbe risultare offensivo tra un anno, quando andremo in onda», dice Sultan. Se bisogna piacere a tutti in un mercato planetario, del resto, il pericolo è che la comicità resti impigliata nel politicamente corretto. «Dal punto di vista creativo l’autocensura non risulta appagante. Dovremmo educare gli autori a non urtare le sensibilità, ma noi tutti dovremmo imparare a offenderci un po’ meno. Un conto sono l’insulto razzista e il body shaming, un conto la battuta dei Simpson», conclude.

 

Peppe Fiore

Sempre più spesso lo sceneggiatore si trova a mediare fra soggetti diversi: la piattaforma digitale, il produttore, il regista, in alcuni casi il protagonista. Un ruolo “politico” essenziale per la riuscita di un progetto. «La paternità creativa appartiene allo sceneggiatore in maniera abbastanza parziale. Oltre a scrivere bene, bisogna essere molto diplomatici», riflette Peppe Fiore, 40 anni, napoletano di nascita e romano di adozione, autore di romanzi (tra cui “Dimenticare” per Einaudi) e sceneggiatore di lunga esperienza. Si è formato con Claudio Corbucci e Stefano Bises, con cui ha scritto anche “Il re” (Sky Atlantic e Now, regia di Giuseppe Gagliardi), protagonista Luca Zingaretti, nei panni del direttore di un carcere di frontiera, il San Michele, sovrano assoluto di una struttura in cui le leggi dello Stato non hanno valore.

 

Anche Fiore non ha mai lavorato così tanto. Come vede il boom delle piattaforme digitali? «Posso riassumerlo con due aggettivi: bulimico ed effimero. Un tempo l’uscita di una serie tv era un evento, oggi la fame di contenuti è spropositata, una serie dura un mese e viene sostituita dalla successiva nella lista degli streamer», aggiunge lo sceneggiatore, che tuttavia segnala anche aspetti positivi: «Si scrive tanto e i progetti si realizzano. Esiste un contesto competitivo che consolida la nostra categoria e rende l’accesso alla professione meno settario di un tempo». Lo sceneggiatore si occupa anche di attualizzare i progetti, fiutare i cambiamenti e tratteggiare personaggi nuovi. Come Amir, nella serie “Il re”, imam radicale finito in carcere perché un fedele della sua moschea ha commesso un attentato e lui ne ha pagato la colpa. Come vengono individuati i contenuti? «Guardiamo con attenzione ai “trending topic” di Instagram, gli argomenti di cui si parla. La politica? Non pervenuta, totalmente assente. In Italia una serie come “House of cards” sarebbe improponibile», conclude Fiore.

 

Sebastiano Melloni

A volte temi forti come la criminalità organizzata diventano lo sfondo trasfigurato di storie dal gusto surreale, pop, noir. Come nel caso di “Bang Bang Baby” (Amazon Prime, regia di Michele Alhaique, Margherita Ferri, Giuseppe Bonito), tra le serie più acclamate quest’anno. Gli sceneggiatori - Andrea Di Stefano, Valentina Gaddi e Sebastiano Melloni - come protagonista hanno scelto Alice, teenager timida e introversa che abita in una cittadina del Nord Italia nel 1986: la sua vita cambia all’improvviso quando scopre che il padre che credeva morto in realtà è ancora vivo. La strada che conduce da lui, però, la costringe a tuffarsi nella famiglia del genitore, i Barone, potente clan della malavita organizzata milanese.

 

«Abbiamo fatto un lungo lavoro di ricerca, agevolati dal fatto che gli anni Ottanta stanno vivendo un revival importante», commenta Mellone, 35 anni, che scritto cinque episodi insieme a Valentina Gaddi. Per entrare in sintonia con Alice hanno ascoltato decine di playlist di canzoni di quegli anni e dei Settanta, scegliendo “Ma che freddo fa” di Nada per una scena clou. «“Bang Bang Baby” indaga un tema molto esplorato nel cinema e nelle serie tv, basti pensare a “Gomorra” e “Suburra”», conclude lo sceneggiatore: «Però lo fa attraverso la lente deformante di una ragazza nel passaggio cruciale dell’adolescenza, racconta la criminalità organizzata da un punto di vista inedito. La nostra sfida è raccontare i personaggi con equilibrio, senza scadere nella farsa».

 

Antonio Le Fosse

Anche quando narrano fatti ispirati alla cronaca o a personaggi storici, i giovani sceneggiatori ribaltano la prospettiva e illuminano figure rimaste nell’ombra. Nel caso di “Briganti” (prossimamente su Netflix) il collettivo Grams (Antonio Le Fosse, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol, tutti ventenni), racconta l’avventurosa trasformazione di Filomena, ispirata a Filomena Pennacchio, figura realmente esistita, da moglie obbediente a spietata brigantessa nell’Italia meridionale di fine Ottocento. «Volevamo parlare di quel periodo storico da un punto di vista ribelle, diverso rispetto a chi ha fatto l’Italia. Un mondo senza leggi, presupposto di ogni storia western», dice Antonio Le Fosse, 25 anni di cui due alla New York Film Academy, che firma anche la regia di alcuni episodi. Il collettivo, che in passato ha scritto anche la serie “Baby” (Netflix) sulle prostitute adolescenti dei Parioli, organizza frequenti brain storming, poi ogni anno lancia “la settimana delle idee”, in cui gli autori sviluppano progetti. «Grams è nato come una band, alcuni di noi vengono dalla musica. Le nostre riunioni sembrano jam session in cui ognuno dà il proprio contributo», dice Le Fosse, che negli ultimi anni ha visto esplodere il mondo delle piattaforme digitali. «È vero, ora molti nostri coetanei si avvicinano alla scrittura e alla regia. Anzitutto, perché costiamo molto meno», ironizza: «Da quando abbiamo cominciato a lavorare a “Baby” mi sarei aspettato un cambiamento ancora più radicale. Mi auguro che lo sia sempre di più», dice lo sceneggiatore, che getta un ponte tra generazioni: «Nel nostro lavoro l’esperienza serve molto. Ma non è vero che noi Grams siamo giovani: in cinque facciamo più di 100 anni!». 

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