L'inchiesta
Il cinema italiano è sempre più preda delle multinazionali straniere
Le aziende tricolori, anche in tempo di sovranisti, sono nel mirino dei colossi esteri, soprattutto inglesi e francesi. Intanto cresce il numero delle opere del cinema e le serie ma cala la fiction. Il mercato produce anche grazie ai sussidi pubblici: ma quando finiranno che succede? E soprattutto, chi deciderà?
In quei cinque o sette (si va di numeri dispari per indole scaramantica) baretti e salotti romani dove si discetta di audiovisivo in forma estesa, cioè piattaforme di vario tipo, televisione di ogni tipo e cinema tradizionale, è stata servita una indiscrezione che ha creato scalpore o comunque un certo fremito: le società di produzione Picomedia di Roberto Sessa e Stand by me di Simona Ercolani sono il prossimo bocconcino (italiano) per la multinazionale Fremantle (britannica/tedesca). Allora s’è detto: è proprio formidabile il governo sovranista che delocalizza i migranti in Albania, vende quote di aziende statali per fare cassa, sonnecchia mentre la cultura prende residenza legale e fiscale all’estero. Il dettaglio rilevante è che Picomedia e Stand by me hanno già proprietà straniera, è l’azienda francese Asacha Media Group finanziata con i capitali americani del fondo Oaktree. È sufficiente correggere l’indirizzo, oltrepassare la Manica, attendarsi a Londra. Semplice. Ammesso che Fremantle (gruppo Bertelsmann, tedesco) concluda l’affare che rimane un’ipotesi fra le tante di vendite/cessioni che quasi mai vengono accostate a gruppi italiani. Non per negligenza. Per dimensioni. Roma è periferia di Parigi e di Londra. Rettifica: Roma è provincia di Parigi e di Londra. Vediamo com’è per il cinema, vabbè l’audiovisivo, vivere in una provincia che fu impero.
In una classifica abbastanza sedimentata che ordina le società di produzione per fatturato, quelle che usufruiscono del credito di imposta (tax credit), le prime otto di dieci appartengono a multinazionali straniere. Con la vetta attorno ai 150 milioni di ricavi/lavori presidiata da Cattleya (Itv Studios, britannica), segue The Apartment (Fremantle), chiude con 66 milioni Lux Vide (Fremantle) che fu fondata da Ettore Bernabei.
I sovranisti potrebbero trasecolare dinanzi a questa classifica, che peraltro non annovera le multinazionali dedicate al settore televisivo nutrito da canone popolare e inserzioni pubblicitarie. Per esempio non è menzionata Endemol Shine che il secolo scorso si è pappata Italiana Produzioni Audiovisive, il decennio scorso era di Mediaset e oggi è dei francesi di Banijay. I sovranisti non trasecolano abbastanza perché coniugano il sovranismo col libero mercato (e i liberi affari degli amici che cedono agli stranieri). Che dice ‘sto libbero (due b rafforzano) mercato? «Le opere prodotte in coproduzione internazionale, che in virtù di tale formula produttiva hanno avuto circolazione estera, sono cresciute notevolmente fra il 2017 e il 2022. Si tratta di un dato importante perché le coproduzioni costituiscono uno dei principali “motori” della circolazione estera dei titoli audiovisivi. Considerando i valori medi relativi ai trienni 2017-2019 e 2020-2022 si registra un incremento del 51 per cento delle opere realizzate assieme a produttori esteri», lo dice una ricerca di dicembre firmata da Anica (Associazione industrie cinematografiche) e Apa (Associazioni produttori audiovisivi) con la partecipazione pure del ministero del Made in Italy. In sostanza questa analisi di fatti e dati suffraga le argomentazioni esterofile: il cinema italiano lo sanno sfruttare gli stranieri. In una elementare dinamica di economia di scala, è ovvio che le maggiori risorse straniere valorizzino l’audiovisivo italiano. Più facile investire. Scontato obiettare: il cuore in Italia, il portafoglio all’estero.
A ogni modo, un tempo Gabriele Muccino migrava a Hollywood (eradicato), adesso pellicole in lingua inglese ambientate in Messico si girano a Cinecittà (radicato). Non è valutato quanto le attrazioni italiane dipendano da una stagione tornata di talento nonché esportabile con Sorrentino, Guadagnino, Bellocchio, Moretti, Garrone, Martone eccetera. Altra congiuntura favorevole, italiani che comandano: Fremantle con Andrea Scrosati e Banijay con Marco Bassetti, una coppia di multinazionali in aperta competizione che assieme incassa più di 5 miliardi di euro in un anno. Fremantle controlla le italiane The Apartment, Wildeside e Lux Vide; Banijay ha Endemol, Groenlandia, l’Officina, Itv Movie, Aurora Tv, Nonpanic. «Nel triennio 2017-2019 le opere cinematografiche e televisive realizzate assieme a produttori non italiani totalizzano 69 milioni di euro di apporti esteri. Nel triennio successivo si arriva a 103 milioni di euro», dice ancora il documento Anica e Apa, «su 2.072 opere prodotte fra il 2017 e il 2022 hanno superato la frontiera in 797 di cui circa la metà sono coproduzione estera».
Quattro sono i fattori che hanno sollecitato la diffusione internazionale: credito di imposta (tax credit), investimenti su piattaforme, capitali esteri, domanda titoli: «Lo stimolo e l’impatto di mercato di questi quattro fattori tende a ridursi», ammoniscono Anica e Apa.
Spieghiamo cos’è il credito di imposta, che il ministero della Cultura voleva tagliare, con la spiegazione attinta dal bilancio di Wildside: «Ai produttori cinematografici e audiovisivi, ai sensi della legge n. 220/2016 (cosiddetta legge Franceschini) e del decreto ministeriale del 15 marzo 2018, è riconosciuto un credito di imposta in misura non inferiore al 15 per cento e non superiore al 30 per cento del costo complessivo di produzione di opere audiovisive, utilizzabile per compensare debiti tributari e contributivi fino all’ammontare massimo di euro 8 milioni per le opere cinematografiche e 10 milioni per le opere televisive e web, per anno fiscale e per impresa o gruppo di imprese. Esistono poi crediti di imposta per lo sviluppo di opere cinematografiche, audiovisive e web, con un tetto nella compensazione pari a 300.000 euro per anno fiscale e per impresa o gruppo di imprese e un credito di imposta pari al 30 per cento delle spese sostenute in Italia per le produzioni esecutive di opere estere, con un limite di 20 milioni di euro annui». Finché il credito di imposta resiste, le serie e il cinema possono farsi condurre dal libero mercato. Il guaio è per le televisioni con canone e pubblicità in diminuzione costante. Gli investimenti per le fiction ronzano sui 250 milioni di euro complessivi, non crescono da un decennio (però sono cresciuti i costi) e le americane Netflix e Amazon li stanno per raggiungere. Le televisioni non hanno autonomia per l’audiovisivo, figurarsi per i programmi di intrattenimento: in larga parte di importazione straniera, noleggio di idee, subaffitto di invenzioni. Il tema non è dove tassare gli utili e (se capita) i dividendi, se meglio a Roma, Parigi, Londra o anche in Lussemburgo, meglio non a Roma chiaro. Il tema è chi detiene il palinsesto degli italiani? Non per bieco sovranismo, i soldi del canone!, ma per benevola indipendenza culturale. Il mercato è libbero, lo sia anche la cultura.
Il ministro Gennaro Sangiuliano non appare coinvolto. Se ne occupa, per rilascio di deleghe, la sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni, che rinvigorisce con L’Espresso il proposito di contribuire a generare spontaneamente (oppure artificialmente) un campione nazionale dell’audiovisivo: «Dobbiamo partire dal presupposto che in un mercato libero ognuno ha la facoltà di vendere o tenere la propria azienda. Il pubblico ritengo abbia il dovere di pensare strumenti idonei ad aiutare le aziende nazionali a rimanere tali. Proprio per questo, già da mesi, ho avviato assieme a un gruppo di imprese italiane un progetto volto a favorirne l’aggregazione per farne quello che si potrà definire un “campione nazionale”, che si allarghi a tutte le realtà interessate. Altro strumento sarà, nel nuovo tax credit, l’inserimento di una premialità volta a sostenere le piccole-medie imprese che avrà come naturale conseguenza l’aiuto alle aziende italiane». Il sovranismo a dosi moderate. Nulla potrà sconfiggere, però, l’astigmatismo della burocrazia che, in epoca Dario Franceschini (non è mica colpa sua), ha negato denaro pubblico al capolavoro “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi. Non convinse il ministero. Ha convinto gli spettatori.
Spesso gli stranieri sono più italiani degli italiani di passaporto che smollano appena piazzano due successi e tuttavia per il cinema anatemi e coccole, di maggioranza e di opposizione, si infrangono contro le camarille che esercitano l’arte del potere a dispetto di maggioranze e di opposizioni. In quei cinque o sette baretti e salotti di Roma si conoscono tutti e se qualcuno non conosce qualcun altro è perché ci si è infilato in un momento di collettiva distrazione. Non vi spaventate. Lo cacciano subito.