Nella percezione del difetto c’è pure la speranza di un futuro pieno di promessa: la possibilità di migliorare, di cambiare. La perfezione, invece, non ha futuro: solo un eterno presente

Ci si innamora dei difetti, in realtà.

 

Sì, certo, la bellezza integra e la perfezione della forma attraggono, suggestionano perché suggeriscono un equilibrio al quale si tende e che dà pace. Il classicismo dei nostri gusti ci fa tendere all’assoluto dell’armonia. Ma è anche vero che la perfezione spaventa e crea distanza, e talora annoia. Davanti ad essa ci si sente inadatti, inferiori. Come innamorarsi della bellezza perfetta? La si contempla e la si ammira, sì, ma non la si ama. Invece il difetto è un appiglio, un gancio di umanità, la possibilità di un compromesso, un accesso. Un neo può rendere davvero «attraente» una pelle che invece senza di esso sarebbe semplicemente «perfetta».

 

Non si può amare una persona senza aver conosciuto le sue cattive abitudini, gli aspetti spiacevoli del suo carattere e le sue contraddizioni. Senza il difetto il vero volto di una persona resta lontano, vago, idealizzato. L’amore cristiano porta all’estremo questa passione per il difetto, postulando l’amore per il non desiderabile, il reietto, il malato, lo scarto; chi è, in un modo o nell’altro, nel corpo o nell’anima, «difettoso». Nella percezione del difetto c’è pure la speranza di un futuro pieno di promessa: la possibilità di migliorare, di cambiare. La perfezione, invece, non ha futuro: solo un eterno presente.

 

Ma c’è pure un altro livello da considerare: se qualcosa è «difettosa» significa che non funziona, cioè, alla lettera – dal latino «de-ficere» – non fa quel che deve fare, e dunque fa «altro» rispetto a ciò che è previsto. Il difetto allora è l’elemento di disordine, di eccezione: è l’imponderabile, l’imprevedibile, lo squilibrio. Per questo si amano, dunque, i difetti: rendono visibile l’originalità della vita che non è meccanicamente fedele agli ordini, alle leggi e ai meccanismi.

 

L’intelligenza senza difetti è quella ordinatrice del computer che, appunto per questo, in spagnolo si chiama «ordenador» e in francese «ordinateur». Ciò che distingue l’uomo dalla macchina ordinatrice è proprio il disordine, il difetto nel ragionamento, che la macchina non può produrre. Anche perché la macchina non sa amare.