Bengala
«Abitare a Milano è un incubo da far impallidire Orwell»
Potersi permettere una casa o una stanza nella capitale morale d’Italia è diventato elitarismo puro. Neanche fosse New York
Che sia un fake o no la storia della bidella pendolare da Napoli a Milano, il punto è un altro: perché invece di farvi schifo almeno inizialmente vi ha commosso? Più che la parabola di un’eroina nazionale tutta dedita al sacrificio quello della Giugliano doveva essere percepito come il racconto di incubo scritto da Verga e sceneggiato da Stephen King. Cioè: se per guadagnare 1.165 euro al mese devi stare dieci ore al giorno in un treno italiano, allora faresti bene a non lavorare. O ti opponi a una vita così oppure vai in qualche Paese subtropicale del Terzo Mondo, guadagni lo stesso, ma almeno c’è il sole.
La parte giornalisticamente forte della storia era quella in cui si denunciava il caro affitti di Milano, una bolla ormai fuori controllo, che non si capisce come mai non sia risolvibile. Su quella avrebbero dovuto vertere il dibattito e la nostra indignazione. Stiamo lì a preoccuparci del fact-checking, ma sul fatto sbagliato.
In un Paese in cui tutto è tassato e sottoposto a normativa è normale che non ci sia un tetto ai costi degli affitti? È normale chiedere 1.200 euro per vivere in 30 metri quadrati perché siamo a Milano? Che poi fossero case normali, sono incubi architettonici di Escher al limite dell’abitabile, infiocchettati da descrizioni come «soppalchini mansardati», «contesto signorile», «spese escluse». Se non vi fidate di me andate su Instagram e guardate i video di @mangiapregasbatty, ovvero Noemi Mariani, che recensisce gli annunci di case in vendita e in affitto. Fa morire dal ridere ma il bello è che non si inventa niente, quella è proprio la realtà.
Abitare dentro la circonvallazione di Milano ormai è elitarismo puro. Come New York ma senza essere New York, manco per cinque minuti e manco per sbaglio. Milano città notturna. Quando mai? La sera alle 21 solo un turista chiederebbe un piatto al ristorante perché tutti sanno che «le cucine stanno per chiudere» e, tolti i ritrovi molesti della movida tipo sui Navigli o “in Isola”, per il resto la capitale morale è un grande dormitorio silenzioso in cui non c’è niente fuori dagli orari d’ufficio. Trovi da pippare h24 e brutti localini coi cocktail annacquati più cari d’Italia, ma un bar prima delle sei del mattino è quasi impossibile. Milano città del lavoro? Sì, nel senso che il lavoro diventa tutta la tua vita, non fai altro.
Quando cerchi casa capisci che c’è qualcosa di malato. Dopo quella con la vasca in cucina, ho vissuto nella «casamera», la casa-camera, ribattezzata così dalla mia migliore amica. Diciotto metri quadrati (credo non fosse del tutto a uso abitativo) dietro corso Genova. Mi sentivo mezzo ricco. Facevo colazione da Cucchi e nel mio palazzo abitava Bianca Balti, ma avevo un frigo tipo minibar da nave e una piastra singola a induzione. Pavimento come nei campi di basket in lattice nero, il termosifone non c’era, però c’era un «coso», un sifone a ventola strano e rumoroso. All’epoca spendevo solo 550 euro, roba che oggi nemmeno per il box per il motorino.
Il concetto che tu debba lavorare per spendere quasi tutto il tuo stipendio nell’affitto e nel costo della vita è un incubo. Chi pensa sia vero, normale o lecito attraversare mezza Italia per mille euro al mese si renda conto che nemmeno George Orwell in “1984” era arrivato a immaginare un mondo del genere.