«L’egemonia culturale della sinistra è connaturata all’arte, al modo di guardare agli altri, senza alzare muri». Dall'amore per il cinema al suo saper raccontare i giovani, e poi il rapporto Camilleri, la coppia fissa con Virzì. E la seconda stagione di Tutto chiede salvezza. Colloquio a tutto campo con lo sceneggiatore e regista

Sceneggiatore o regista, davanti a una pagina bianca o dietro a una macchina da presa. Un dilemma, una scelta, un salto, chissà. Da piccolo voleva fare l’astronauta, «puntavo in alto», dice Francesco Bruni, «ma avevo paura. Poi sono cresciuto e pensavo che anche fare il portiere di palazzo non sarebbe stato male, un bell’appartamentino, non fai nulla dalla mattina alla sera e ti guardi pure le partite di calcio».

 

Un’ironia sottile, un tono morbido, di chi ha molte cose da fare tutte insieme ma si prende il tempo giusto per raccontare una storia. Nella vita professionale di Francesco Bruni, che dalla sua Livorno si è portato una cadenza invidiabile e il sorriso che resta a chi ha ascoltato il rumore del mare, il salto – volare o tuffarsi – è una specie di filo rosso che lo accompagna da sempre. Praticamente come i personaggi di "Tutto chiede salvezza", la serie Netflix dal successo condiviso di cui ha scritto e diretto la prima stagione e ora è al lavoro sulla seconda, cinque episodi nuovi di zecca che vedremo nel 2024.

 

Sceneggiatore di nascita, crea un sodalizio con Paolo Virzì, praticamente una coppia di fatto da cui nascono perle sparse come Ferie d’agosto o Il Capitale umano. Per la tv è la penna dietro al Commissario Montalbano, la fiction dei record, ma era scritto come un copione che il salto alla regia sarebbe avvenuto. «Ho deciso tardi e sinceramente non so perché. Forse mi ero sottovalutato. Poi ho capito che è un gioco divertentissimo. Perché lo sceneggiatore è quello che costruisce le statuine ma è il regista che le prende e le sistema nel presepe». E quando parla di cinema gli si illuminano gli occhi: «Faccio un mestiere che mi permette di mettere in scena i miei sogni e mi pagano pure, ma come faccio a non essere felice?».

 

Il primo film dietro la macchina da presa è arrivato per caso: «Con mio figlio al liceo facevamo conversazioni esilaranti, io provavo a raccontare cose tipo l’omosessualità nell’antica Grecia e lui se ne usciva con immagini colorite su Achille e Patroclo. Virzì si sganasciava dalle risate e continuava a dirmi che avrei dovuto farci un film. Ed è nato Scialla. Pensavo che sarebbe stato una tantum, invece ha incassato tre milioni e mezzo, ha vinto il David, e a quel punto ho realizzato che poteva davvero essere la mia passione. Però se me lo chiedono, regista o sceneggiatore, dico ancora sceneggiatore. Almeno fino a che non mi daranno un premio, ci spero ogni volta». E lo dice ridendo, perché alla fine Francesco Bruni ha girato quattro film e di soddisfazioni ne ha avute parecchie. L’ultima è proprio la serie Netflix. Che per uno che non guarda la tv può sembrare una battuta. «Non ho ancora fatto pace con quello schermo così piccolo, soffro come un cane all’idea di un pubblico che guarda quello che faccio sul cellulare, magari in autobus. Nella mia testa Tutto chiede salvezza è un film, però con continui colpi di scena, in questa seconda stagione addirittura uno per ogni episodio, praticamente come se si stesse sull’orlo di una scogliera ogni 40 minuti, anzi sulla piattaforma prima del tuffo». Proprio come abbiamo lasciato Nina e Daniele (Fotinì Peluso e Federico Cesari), lei incinta, mano nella mano, forti nelle loro fragilità. Che, come dice Bruni, «possono diventare un superpotere. In Tutto chiede salvezza il capire di essere fragile diventa la tua forza. Ed è con questi personaggi che si fa il cinema. I santini non sono interessanti non piacciono né a me né al pubblico. A parte le fiction generaliste, ma tanto non le vedo». Beh oddio Bruni, ha fatto Montalbano, qualcosina l’ha fatta pure lei non crede? «Ah sì è vero», e scoppia a ridere. «Però guardi che anche Montalbano ha i suoi difetti. È maschilista, cocciuto, non è un buon compagno per la sua compagna, sono difetti minori ma li ha». 

 

Torniamo a Tutto chiede salvezza. «Quando mi sono innamorato del romanzo di Daniele Mencarelli mi sono detto che questa serie avrebbe potuto intercettare un malessere giovanile, dilagante purtroppo, e magari essere vista anche dai genitori, per cercare di capire cosa c’è nella testa di questi ragazzi con cui non riescono a comunicare. Ed è stato proprio così».

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D’altronde Bruni con generazioni diverse ha sempre avuto a che fare. «Ho ricevuto un insegnamento molto potente dai grandi vecchi. Furio Scarpelli è stato un vero maestro di scrittura, ho fatto recitare un gigante come Giuliano Montaldo in Tutto quello che vuoi, e poi Andrea Camilleri, che ci ha lasciato un vuoto enorme. Era un piacere andarlo a trovare, era molto carezzevole, dava tanti baci, ti voleva vicino. Poi quando non riusciva più a leggere gli recitavamo i copioni, lui ci ascoltava in silenzio, ogni tanto alzava il dito, ed era sempre soddisfatto. Però esercitava un sano distacco fra la sua letteratura e la televisione. Cioè lui diceva: i miei romanzi sono una cosa, Montalbano un’altra. Cosa mi ha insegnato? Il chiamarsi fuori dalla competizione. Ma lui se lo poteva permettere».

 

Non solo Bruni di ragazzi ne ha diretti tanti ma è anche uno dei pochi che riesce a raccontarli. «Quello che più mi sorprende in questa capacità che mi viene attribuita è che dovrebbe essere così per tutti. Sì, ho due figli che ho osservato con attenzione, c’è stata l‘esperienza del cinema America e poi ricordo molto bene i miei vent’anni. Ma non sono certo esperienze uniche. Diciamo che il mio sforzo è quello di non essere giudicante, provo a fotografarli, non a indicargli dove sbagliano. Li considero delle persone a tutti gli effetti che vanno ad affacciarsi all’età adulta in un momento in cui è tutto così difficile rispetto a prima. Io sono del ’61, cresciuto in un mondo che aveva ancora delle prospettive. Oggi i ragazzi sanno che staranno peggio dei loro genitori perché abbiamo fatto dei danni enormi, gli abbiamo disegnato un mondo che non va, a partire dai problemi ambientali, il consumismo, a queste cazzo di scatolette che chiamiamo telefoni…tutto questo non l’hanno inventato loro, lo abbiamo creato noi». Beh, ci va giù pesante. «Il mio non è un cinema di denuncia in senso tradizionale, perché io cerco di raccontare dei microcosmi borghesi più che il mondo che ci circonda. Però esprimo sempre quello che penso. Per esempio in Tutto chiede salvezza c’è l’emergenza del disagio mentale giovanile, un discorso molto chiaro contro i social, che in questa seconda stagione sarà ancora più evidente, poi si affronta l’omosessualità, il razzismo, e in un certo senso tutto diventa politica, è inevitabile». 

 

Francesco Bruni e Federico Cesari sul set di Tutto chiede salvezza

 

A proposito di social, quelli sì che sono un’arma della politica. «Anche troppo. Mi infastidisce l’uso della strategia che vuole parlare solo alla pancia del Paese. Non possono davvero credere che la spesa all’Esselunga sia la cosa migliore da fare un pomeriggio». Non resta che consolarsi con la cultura, caro Bruni. «Bella battuta. Oggi la cultura non è più considerata un valore comune, il libro più venduto è quello di Roberto Vannacci, se non è un segnale preoccupante mi dica lei. Ci mancava solo il ministro Gennaro Sangiuliano che vuole tagliare i finanziamenti al cinema. C’è da augurarsi solo che, come è successo per i libri dello Strega, non abbia letto neanche il provvedimento che il ministero si accingeva a emanare. Ma, parlando seriamente, per chi è al governo noi autori siamo considerati dei fannulloni fancazzisti che passeggiano sui red carpet anche se abbiamo lo smoking a noleggio. Quell’immagine è fasulla e fa sì che la gente protesti per un mondo che non esiste, di super ricchi che pretendono i finanziamenti statali». La famosa cultura feudo della sinistra, dunque. «Guardi alla fine è un teorema: chiunque scrive, fa cinema, dipinge, non può essere una persona insensibile agli altri, è necessariamente una persona empatica e quindi non può essere esclusiva, mettere muri, dire tu no io sì. Insomma, chi fa cultura non può essere di destra, molto semplicemente non può». Bel ragionamento, ma di questo governo non salviamo nulla? «Come ho detto, il ministro Sangiuliano non mi dà una gran fiducia, però mi ha sorpreso la nomina di Sergio Castellitto nuovo direttore del Centro sperimentale, la trovo un’ottima mossa inaspettata». Sembra quasi un pensiero positivo. «Ah no, io sono un prefiguratore di disastri. Ambisco ad essere una brava persona però evidentemente tengo a freno la mia parte più oscura, meno solare. Vorrei essere santo, invece sono peccatore».

 

E come si vede da grande Francesco Bruni? «A un certo punto è arrivata la malattia, che ho raccontato in Cosa sarà e che è stata un campanello d’allarme, mi ha fatto capire di non essere immortale. Da allora cerco di fare esclusivamente cose di cui sono molto convinto». Bello. E poi? «Mi piacerebbe che mia nipote, quando sarà adulta, trovasse i miei film ancora attuali, insomma che dicesse: anvedi, fico nonno!».