Il quartiere, nella zona sud di Milano, è abitato da diecimila persone. Una sorta di dormitorio, separato dal centro della città, senza locali e attività per giovani. Ma arrivano segnali di rinascita. E vengono dal basso

«La zona è 5 come i mesi/Che ho scontato da solo al freddo/La zona è 5 come gli anni/Dell’espatrio di mio fratello/Ho detto 5 sono gli anni/Che avevo quando è morta mia madre». Così cantano i Group5, il gruppo di rapper del Gratosoglio, a proposito della zona 5 di Milano: la periferia dove sono cresciuti e da cui viene anche Mahmood.

 

Quattro ragazzi, tute, cappucci, occhiali scuri: si chiamano Kerim Levrai, MadPrince, Marsiglia e Orfedi. Cantano in italiano, arabo, francese e spagnolo; sono italiani ma di origini diverse: c’è chi viene dal Perù o dal Cile, chi dalla Tunisia o dal Marocco, chi ha il padre calabrese. Prima del singolo “Zona 5” c’è stato “Grato 2”: «Parlare della strada e del quartiere è importante», dice Anas alias Marsiglia, vent’anni, un diploma in grafico pubblicitario.

È importante per dire della rabbia di chi vive tra spaccio e mancanza di prospettive. Per darsi una possibilità: si inizia a scrivere sul telefono, sul diario, tornando da scuola. I ragazzi di Group5 si conoscevano da sempre, poi si sono riuniti in un garage e hanno iniziato a fare musica insieme. Adesso hanno un contratto con la Warner, ma tutto è nato per sfuggire alla noia. Perché qua, dice Marsiglia, «mancano le attività, i campi da calcio; manca qualsiasi cosa possa tenere i ragazzi lontani dalla strada».

Quando, molti anni fa, frequentavo il Politecnico, i professori sottoponevano agli studenti la ri-progettazione urbanistica di un’ampia zona del Gratosoglio. Ancora oggi agli studenti di Architettura viene presentato come luogo di possibile intervento. La maggior parte di loro, però, non sa neanche dove si trovi. Il Gratosoglio è solo un’astrazione, non un luogo abitato da diecimila persone. Non un angolo di città quasi senza pizzerie ed esercizi commerciali, dove i rifiuti invadono le strade per giorni. La periferia è uno stato mentale: è ciò che sta al confine della nostra percezione.

«Bisognerebbe investire in educazione e risorse che siano sempre presenti sul territorio», dice Andrea Cainarca, direttore di Oklahoma Onlus, comunità che da quarant’anni accoglie i giovani. C’è chi arriva da situazioni famigliari difficili, chi dal carcere minorile, ci sono i minori stranieri non accompagnati. «Il Gratosoglio è rimasto una periferia più periferica delle altre». È un quartiere di anziani (sono circa il 33 per cento) e immigrati (il 17 per cento, di 30 nazionalità diverse) con molti problemi di coesione sociale e ritardo scolastico. E con un’emergenza abitativa data dai locali Aler fatiscenti e dall’occupazione abusiva.

Dall’alto, il Gratosoglio è un rettangolo separato dalla città, fedele alla natura originaria di quartiere satellite, sorto per dare alloggio agli operai dell’ex cartiera Verona e dell’ex cotonificio Cederna. La campagna, un tempo disseminata di mulini, si infila a pettine tra i caseggiati; nei campi c’è ancora qualche antica cascina. Così, i palazzi sembrano capitati lì per caso. Se si arriva da Sud una mattina di nebbia, le case costruite a partire dagli anni Cinquanta sembrano la fortezza del “Deserto dei Tartari”.

Le tre torri bianche svettano severe: progettate dallo studio Bbpr, lo stesso della Torre Velasca, dovevano accogliere abitazioni, negozi, piazze per la socializzazione. Con i loro 56 metri di altezza, erano state pensate per diventare centro nevralgico. Oggi, sebbene siano oggetto di un bando di riqualificazione, sono il cuore non pulsante del quartiere e delimitano una piazza rimasta senza nome. Chi si va a bucare di eroina in pieno giorno passa inosservato.

Della geografia umana del Gratosoglio ho parlato con Elena Borrone, che coordina con passione il Laboratorio di Quartiere e tesse le relazioni tra persone e associazioni presenti sul territorio, facendosi parte attiva di un progetto di rigenerazione urbana voluto dal Comune di Milano. Ho capito che la periferia non è uno stato mentale solo per chi la guarda dal centro, ma anche per chi la vive. Sentirsi marginali, non avere una voce o un racconto di sé. O meglio, non pensare di averlo: perché invece i segni di una rinascita ci sono, arrivano dal basso, basta saperli ascoltare.

«Una cosa che mi ha colpito del Gratosoglio, che nella narrazione è sempre un posto negativo, è la risposta delle persone. Quando ci sono delle proposte la cittadinanza partecipa sempre». Oklahoma ha organizzato una festa a settembre, sotto le torri. Quattrocento persone si sono riversate nella piazza per lo spettacolo di hip hop e danza acrobatica. Un po’ come quando i Group5 hanno girato un video tra le vie del quartiere. «Nessuno poteva credere che stesse succedendo qualcosa di diverso. Ragazzi, bambini, anziani sono scesi incuriositi: hanno partecipato alle riprese», dice Marsiglia.

Nella sede di Oklahoma, in molti partecipano alle “Cene di quartiere”. «Siamo presenti sul territorio grazie al laboratorio di cucina nato nel 2017 sull’onda di una tragedia», continua Cainarca: «Nel luglio 2016 un ragazzo albanese che era uscito dalla comunità a maggio è stato ucciso da una gang di sudamericani. Si chiamava Albert, tornava dal lavoro in tram. Il suo era un percorso modello: faceva il giardiniere e aveva un posto dove vivere».

Il giorno dopo sarebbe andato a ritirare il permesso di soggiorno rinnovato e in estate sarebbe tornato a casa per la prima volta dopo tre anni. Era arrivato in Italia come minore non accompagnato. Oklahoma ha raccolto fondi per rimandare la salma in patria. Ma una persona che lavorava in una fondazione, colpita dalla storia di Albert, ha fatto una donazione per un progetto che portasse i ragazzi ancora di più verso l’autonomia. La spinta per avviare il laboratorio di cucina animato da Rocio Balseca.

Anche Marsiglia ha cucinato una volta con gli abitanti del Gratosoglio. Gli piace far parte di una comunità, nelle sue parole c’è sempre una forte rivendicazione d’appartenenza. Soprattutto, ricorda don Giovanni e il suo oratorio: era l’unico che riuniva i giovani. Quando l’oratorio ha chiuso, molti sono tornati per strada. Ma Anas no: «Ho deciso che volevo crearmi qualcosa da solo».

Gli piacerebbe andare a teatro, è curioso, non si tira mai indietro davanti a una nuova esperienza. Gli faccio notare che dall’altra parte di viale Missaglia, nell’angolo più residenziale della zona, un teatro c’è. «Davvero?», non ne ha mai sentito parlare, quasi che il viale fosse un confine invalicabile. Eppure, il PimOffracconta una bella storia. Il teatro è stato fondato nel 2005 da Maria Pietroleonardo, cresciuta nelle case popolari del Gratosoglio. Una volta sposata, Maria si è trasferita poco più in là, nel quartiere dei Missaglia; negli anni Settanta, suo marito ha aperto un’azienda chimica. Quando c’è stata la possibilità di finanziare la fondazione di un teatro, dopo un’esperienza in quartieri più centrali, il ritorno.

Il PimOff si trova nel sito riqualificato delle ex cartiere Verona, un avamposto culturale; ha ospitato in residenza molte compagnie sperimentali e ha inaugurato alcuni progetti. Il collettivo artistico dei Dynamis ha lavorato con i ragazzi di una scuola di Rozzano su dinamiche di gruppo e uso dei social: «Si è consolidata una piccola comunità», dice Antonella Miggiano, project manager di PimOff. Anni fa, invece, la compagnia Acqua su Marte è stata invitata a lavorare sul Gratosoglio con interviste e passeggiate urbane che alternavano esperienza a realtà aumentata.

Eppure, non basta. «Il nostro è un pubblico di affezionati che arrivano da altre zone». Forse perché è difficile farsi conoscere. «Al Gratosoglio non ci sono locali. Ogni tanto vorrei appendere delle locandine, ma non so dove farlo. Le porto dal ferramenta, alla farmacia...». Per Marsiglia le cose belle sono la solidarietà tra amici e il provenire da culture diverse: «Si viaggia rimanendo qui». A volte, però, basterebbe solo attraversare un viale.