Stereotipi sociali, differenze nelle retribuzioni, percorsi professionali penalizzanti: sono alcune delle barriere contro cui le donne devono combattere. Ma gli studi dimostrano che la disuguaglianza ha un costo e fa male anche agli uomini

Abbattere il patriarcato. Non solo per una questione di giustizia: perché stroncare il maschilismo vuol dire disegnare una società più equa. Ma anche per far crescere l’economia. A beneficio di tutti: il Pil pro-capite dell’Unione europea aumenterebbe quasi del 10 per cento se si puntasse a ridurre il divario di genere. Entro il 2050, si aprirebbero posizioni lavorative nuove per 10,5 milioni di persone, sia uomini, sia donne. Si intensificherebbe la produttività e, quindi, la capacità del mercato interno di creare beni e servizi, favorendo le esportazioni. Sarebbe una soluzione anche per contrastare l’invecchiamento della popolazione visto che molti studi testimoniano come le pari opportunità nell’educazione, nella partecipazione al mondo del lavoro e nella retribuzione, portino a una crescita della natalità.

 

Lo assicurano femministe, sociologhe, economiste. E uno studio dell’Unione europea. «Soprattutto per Paesi come l’Italia, dove il gender gap è ancora profondo, scardinare il patriarcato porterebbe a una rilevante crescita economica perché il margine di miglioramento è ampio. E, quindi, all’aumento del benessere collettivo», dice l’economista femminista Marcella Corsi a proposito delle stime prodotte dall’Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (Eige), che evidenziano i benefici che la parità di genere porterebbe all’Unione europea. Eige da anni calcola un indicatore composito, il gender equality index, con l’obiettivo di misurare il divario di genere nei paesi membri dell’Ue. Si tratta di un indicatore che copre più dominii, come l’accesso al mercato del lavoro, al sistema sanitario, all’istruzione, alle posizioni di potere, per offrire una mappa completa delle disuguaglianze generate dal patriarcato. L’Italia è al quattordicesimo posto, sotto la media europea, soprattutto a causa della scarsa partecipazione delle donne al mondo del lavoro.

 

«Siamo un Paese dove l’occupazione femminile è davvero inferiore a quella maschile. Succede perché le donne già fanno le madri, le figlie di genitori anziani, oppure lavorano in modo informale. Quando si dice che le donne non partecipano al mondo del lavoro bisognerebbe chiedersi il perché». Come spiega Corsi, la battaglia da portare avanti per l’emancipazione è duplice: «Da un lato per la redistribuzione del carico del lavoro di cura, sia dentro, sia fuori dai nuclei familiari. Di questo filone fanno parte le battaglie per l’apertura di asili nido, per il prolungamento dell’orario scolastico, per il congedo di paternità obbligatorio. Dall’altro lato, affinché il lavoro di cura venga valorizzato anche economicamente, bisogna pensare a forme di contribuzione, che aiutino a liberare le donne dai condizionamenti dovuti agli stereotipi nell’educazione e nelle strutture familiari».

 

Perché, come sostiene la psicologa sociale Chiara Volpato, «il maschilismo è ancora chiaramente tra di noi. Potente e obsoleto, continua a condizionare la nostra vita. Rallentando il cambiamento, limitando la libertà delle donne che vivono in un Paese che non le considera, oppure che le considera troppo perché scarica su di loro tutto il peso del lavoro di cura che dovrebbe essere una responsabilità della collettività. Ma la mancanza di pari opportunità porta anche gli uomini a pagare un prezzo alto. Restano ingabbiati nell'immagine tradizionale della mascolinità egemone che è costrittiva: impedisce l’espressione dell’emotività, costruisce un limite nei rapporti interpersonali, assottiglia la qualità della relazione con i figli». Uomini che, cresciuti pensando che al centro delle loro esistenze dovesse esserci il lavoro, perdono parte della loro identità nel momento in cui questo si fa precario.

 

«Proprio il divario che si crea tra i desideri e la vita di tutti i giorni accresce il malessere sociale», spiega Rossella Ghigi, sociologa, responsabile del Centro di studi sul genere e l’educazione dell’Università di Bologna, che chiarisce: «C’è un gap sempre più grande tra ideale e reale. Che costa alle persone anche in termini di benessere psicologico. Ad esempio: la disparità di genere nella formazione ormai è più che colmata, il tasso di donne laureate ha superato quello degli uomini, tuttavia ci sono più uomini occupati, in ruoli apicali e con stipendi più alti. Le donne, invece, sono di solito demansionate oppure partecipano con intermittenza al mercato del lavoro. Le conseguenze sono sia economiche: lo Stato ha speso per formare donne che non lavorano, o non lavorano come potrebbero. Sia in termini di mancata soddisfazione: di chi ha studiato ma resta fuori dal settore dell’occupazione. Il modello sociale non tiene il passo con i desideri delle persone che lo vivono». Per Ghigi oltre alle perdite a livello economico, il patriarcato costa alla società anche in termini di benessere e di salute. Come ha scritto nel libro “Fare la differenza. Educazione di genere dalla prima infanzia all’età adulta” (Il Mulino), è necessario agire in tutti quei luoghi dove pensiamo che vada fatta educazione alla cittadinanza, «dovrebbe essere posta un’attenzione speciale e precisa sui temi della differenza e delle pari opportunità, per contrastare gli stereotipi. Perché hanno a che fare con la cultura e, quindi, bisogna agire con la cultura per abbatterli».

 

Che la consapevolezza sia un passo necessario per ridurre il divario lo sostiene anche Scilla Signa, ideatrice di Hackher, un progetto, patrocinato dal Parlamento europeo, nato per colmare il gender gap tecnologico. «Non c’è mobbing o discriminazione che giustifichi una così scarsa presenza di donne nei settori high tech. È, invece, la conseguenza degli stereotipi che condizionano l’educazione dei bambini, per cui i maschi si dedicano alle materie scientifiche mentre le femmine agli studi umanistici». Eppure, si tratta di una mancata opportunità: visto che è uno dei settori che offre maggiori possibilità di impiego. E che le laureate in discipline Stem (dall’inglese: Science, technology, engineering and mathematics) sono tra quelle con gli stipendi più alti. Guadagnano come gli uomini anzi, mettendo a confronto le fasce di reddito, come fa la ricerca sulla disparità salariale condotta da Acli, anche leggermente di più. «Fare la programmatrice offre, oltre a un buono stipendio, anche la possibilità di lavorare da remoto e con orari flessibili. Oltretutto più donne entreranno a fare parte del settore, meno maschile sarà l’organizzazione del lavoro e la realizzazione dei progetti. Contribuendo a generare una rivoluzione in uno dei campi che guida l’innovazione oggi e svolgendo un ruolo attivo per raggiungere le pari opportunità non solo sul lavoro ma a livello globale», conclude Scilla.

 

Per la founder del progetto Hackher come per Ghigi, Volpato e Corsi, è importante, per decostruire il patriarcato, ridefinire i ruoli e i carichi di lavoro all’interno del nucleo familiare. Che si ripercuotono e ripropongono anche fuori.

 

Per farlo c’è la necessità di riforme concrete, sostenute dalle istituzioni e dalla politica. Perché, come scrive l’economista femminista Azzurra Rinaldi nel suo ultimo libro “Le signore non parlano di soldi” (pubblicato da Fabbri), «Lo abbiamo capito: la parità conviene. Ma da dove iniziare per raggiungerla?».