Lingua e natura
Sei un porco, vita da cani, gatta morta: per dire il peggio si usano sempre gli animali
Insulti, pregiudizi e paragoni. Ma in fondo la calunnia bestiale è una faccenda antica, che comincia con Esopo a Fedro per personificare e semplificare i nostri vizi e virtù
Sei un porco, lo sai? E lui scrive da cani. Incredibile. L’animale più amato è fra i più calunniati - vita da cani, solo come un cane. E per insultarci ricorriamo al maiale, il più generoso e sfruttato al mondo, di grande e fragile sensibilità. Mondo cane. O meglio vita da giungla.
Ogni ufficio è pieno di lumache che perdono tempo, gente che scalcia come muli, orsi che sfuggono i colleghi, conigli che non protestano mai, oche che starnazzano e pesci che non parlano, leoni pronti a sbranare, volpi che tramano. E intorno i grilli parlanti, che davanti a quattro gatti e i soliti cani bastonati ripetono a pappagallo di stare attenti ai falchi.
Abbiamo bisogno degli animali, non solo per usarli divorarli esibirli, ammaestrare testare monetizzare, ricavarne conforto e compagnia. Ci servono per offenderci. A dire il peggio di noi.
Come insultare qualcuno senza parolacce o dettagli? Diciamo: Sei un animale. Oppure la variante: Sei una bestia. Ci siamo convinti nei secoli che essere una bestia sia degradante e vile, e che l’essere umano sia addirittura superiore in tutto agli animali - la cui parola peraltro deriva da anima.
È vero, da Esopo a Fedro sono stati gli animali a personificare e semplificare i nostri vizi e virtù, ma noi siamo andati oltre. Li abbiamo schiavizzati, defraudati, seviziati negli esperimenti, de-animalizzati e torturati negli allevamenti, offesi e ingiuriati con crudeltà e ignoranza. Ignoranza, sì. Perché, a dirla tutta, le categorie in cui li abbiamo ingabbiati e immiseriti sono anche ottuse e strumentali.
Che senso ha dire asino per dire ignorante, quando l’asino è una creatura mitica, superiore per volontà e tenacia? Il grande Bresson lo ha persino eletto a protagonista, figura simbolica e quasi mistica nel suo film Au Hasard Balthazar del ’66, che vede appunto Balthazar, l’asinello, mortificato come un martire. Ci sarà un motivo, d’altronde, se fa parte da sempre della più sacra famiglia, assieme al bue.
E che senso ha convocare il rospo per dire brutto e sgraziato? O ricorrere ai muli per svalorizzare o irridere chi agisce con caparbietà (peraltro, è un gran difetto)? I lupi, tiranneggiati ingiustamente tra favole e miti, sono stati riabilitati dagli etologi, ma noi continuiamo a ribattezzare lupo chi ci appare famelico o truce, e a dire tempo da lupi quando il cielo è cupo. Così come usiamo il termine coniglio per dire pavido o vile, quando la tenera creatura, braccata nei boschi da sempre e dunque incline all’infarto per paura, ha tutti i motivi per temere il mondo e i suoi inquilini.
Luoghi bolsi e comuni tramandati dalla lingua, che per natura, mentre si trasforma, produce e incista stereotipi e pregiudizi.
Brutta come una scimmia (che oltre ad essere fra i nostri antenati, è di somma intelligenza). Noiosa come una mosca. Grassa come una vacca. Smorfiosa come una gatta morta (perché morta, poi?). Già. E quante oche abbiamo incrociato nei discorsi sessisti, per dire stupide o ciarliere? Quante donne che fanno le civette, o rane dalla bocca larga – peraltro creature in estinzione, preziose per l’ecosistema? Quante volte è stato tirato in ballo, ignominiosamente, il cervello di gallina che invece è ricco e capace? Lo sapete che le galline hanno risorse a noi segrete, di apprendimento, memoria e relazione?
Persino Gramsci (sic) parlando di Carolina Invernizio, autrice talentuosa di best seller tradotta in tutto il mondo, la definì “un’onesta gallina della letteratura italiana”, e d’altronde il pollaio esercita ancor oggi un’irresistibile attrazione simbolica per molti, visto l’uso della categoria Chicklit, letteratura da pollastre, per le scrittrici di commedie e storie rosa.
Di recente è stato ripescato, nel senso di riabilitato, anche il polipo, abilissimo e duttile stratega grazie alle tante terminazioni nervose. Eppure è sempre e meschinamente associato all’idea della mollezza e invasività, e persino – nel dialetto siciliano – usato per offendere, con omofobia mascherata da scherzo, omosessuali e ballerini.
Restando in mare (e in zona Sicilia), il disonore peggiore è però toccato alla piovra, ovvero il calamaro gigante: da creatura mitica e leggendaria è stata retrocessa alla metafora più triste. Piovra per dire mafia. Da Jules Verne al Padrino, un singolare sprofondamento.
Danno di reputazione inflitto anche al suo nobile coinquilino, di origini antichissime e misteriose: lo squalo. Ha un “sesto senso” con cui intercetta i campi elettromagnetici delle prede, e grazie ai suoi 400 milioni di anni è immensamente evoluto, ma diciamo squalo per dire il peggio: persona avida e cinica, senza scrupoli e senza morale. Per non dire macchina sanguinaria, grazie ai film da Spielberg in poi.
Ah, “Upupa, ilare uccello calunniato dai poeti!” – scrive Montale in una celebre poesia. Violenza culturale, appropriazioni indebite. Al pipistrello, nell’ansia da virus, quante nefandezze abbiamo attribuito? E alle mosche, zanzare, insetti vari, colpevoli a volte solo di essere brutti. Non a caso risparmiamo farfalle e coccinelle, gradevoli per forma e colori, e sterminiamo i loro parenti senza appeal. E riserviamo il trattamento peggiore a una creatura indispensabile pur umilmente nascosta.
Sei un verme. Quante volte l’abbiamo detto, o pensato? Quanta infamia su un corpo grande come una virgola. E quanta violenza sul povero topo, perenne cavia di esperimenti, vittima di inganni e trappole, nell’insulto più greve: topo di fogna.
Siamo una macchina del fango. Ma non infanghiamo a caso, prendiamo ciò che ci interessa e avvince, per abuso di metonimia.
Le corna del cervo ad esempio. Come dirlo meglio, cornuto? E la parola serpente per dire viscido e insinuante? È toccato al coccodrillo però il destino più curioso, quello di prestarsi al nostro bisogno immaginifico di creature perturbate e commosse: il suo pianto è diventato il segno del rimpianto postumo, un po’ colpevole e un po’ finto, ma rituale. Tanto che il coccodrillo è diventato, in redazione, il necrologio scritto prima della morte, in sinistra prevenzione.
Pochissimi gli animali scampati al nostro turpiloquio. Tanto forte, la tentazione, che non resistiamo all’istinto di schiacciarli comunque (come formiche), dentro un’immagine del tutto incongrua o forzata – bagnato come un pulcino, che senso ha? O dire ignorante come una capra? E perché infangare il gregge, corteo sereno e solidale? E quanto discredito sulla pecora nera. O sul gufo, diffamato persino con un verbo: gufare, cioè portare iella. Non potendo dir male del cigno, così bello e regale, l’abbiamo omaggiato e sepolto sotto un’immagine malaugurante, e l’ultimo atto di un artista diventa la Morte del cigno.
Siamo stolti, tracotanti e ingrati, divisi tra l’eccesso di umanizzazione disneyano (per mettere in pausa i sensi di colpa) e l’egocentrismo padronale degli umani. Eppure basterebbe conoscere e riconoscere le “piccole persone” (così le chiamava, con amorevole incanto, Anna Maria Ortese) nella loro altra e diversa natura -ma non per questo inferiore- fatta di risorse, attitudini e modalità espressive notevolissime, anche se oscure per noi. E di sapienza cumulata nel tempo, sociale e organizzativa, adattativa e trasformativa.
E la faccenda è certo estesa e complessa, visto che anche nei migliori documentari raccontiamo gli animali solo in veste di predatori e prede, sempre in rissa per le femmine o il cibo, l’ambiente o l’uomo, drammatizzando la narrazione in chiave umana e sentimentale.
Faccenda antica sì. È già consegnato infatti alla Genesi (l, 26) il più violento messaggio all’uomo-padrone della natura: “Regni l’uomo sopra i pesci del mare e gli uccelli del cielo, sugli animali domestici, sulle fiere della terra, e su tutti i rettili che strisciano sulla sua superficie”. (Del resto Papa Francesco, a dispetto del suo nome, non si è pronunciato più volte contro l’eccesso (a suo dire) di cure per cani e gatti?
Ma noi siamo la lingua che parliamo, e non solo perché ci rappresenta. Le nostre parole trasmettono e tramandano - con automatismo e inconsapevolezza - una visione del mondo che spesso non è la nostra. Stiamo attenti dunque, a ciò che pronunciamo. Impariamo dall’umilissima lumaca. Per Marianne Moore, poeta e autrice di un geniale bestiario, è il paradigma elegante della sintesi e dello stile (“Se la concentrazione è il primo dono dello stile, tu la possiedi. La contrattilità è una virtù, così come modestia è una virtù”). Ma la più appassionata era Patricia Highsmith, che amava così tanto le lumache da portarle in viaggio dentro il reggiseno, o in borsa, in giro, con una foglia di lattuga.