Una scrittrice e uno scrittore che abitano a Milano, sono usciti in questi giorni con due romanzi, parlano di legami e rapporti umani, di desiderio d’amore e di amicizia, ma anche di progettualità intesa come possibilità di guardare al domani. Sia Lorenza Gentile con “Le cose che ci salvano” (Feltrinelli) che Marco Balzano con “Café Royal” (Einaudi), però, mettono in scena anche Milano. E riflettono su come lo spazio che viviamo determini le nostre azioni e su quanto i processi di gentrificazione ci facciano dimenticare lo spirito della città: costringono i giovani ad andarsene e fanno perdere allo spazio urbano gli sguardi necessari a una narrazione futura. Per un paradosso, la cosiddetta riqualificazione rischia di diventare una perdita della qualità della vita.
Gea, la protagonista del libro di Lorenza, vive a Milano, nella zona dei Navigli. I protagonisti invece di Marco Balzano sono tanti: ricordano i personaggi della Yasmina Reza di “Felici i felici”. A volte si conoscono, a volte no; vivono tutti intorno a via Marghera, famosa via di Milano. Tutt’e due avete guardato alla città non in termini puramente spaziali, ma come fattore attivo nelle dinamiche dei personaggi.
Che tipo di protagonista è la città di Milano nei vostri libri?
Lorenza Gentile: «Nel mio caso la città di Milano è un personaggio importante del libro, in quanto fa da “nido” alla mia protagonista – la protegge e le dà un senso di comunità – e allo stesso tempo costituisce una minaccia. C’è un confine entro cui lei vive: in città si sente protetta dal quartiere, ma attraversato il confine la vede come un luogo spaventoso, da temere».
Marco Balzano: «Nel mio libro via Marghera è una cornice, ed è solo una via. Da un lato è un abbraccio accogliente, dall’altro una sorta di gabbia dorata – via Marghera è un’elegante via dello shopping, una via stretta, con un’atmosfera vecchia Milano. Mi sono reso conto che tutti i miei personaggi hanno un bisogno profondo dell’altro; più che la felicità cercano l’amore. Sono raccontati tutti in un momento di svolta e, tra le svolte, rientra anche la possibilità che via Marghera per loro ormai vada stretta e vogliano riappropriarsi di uno spazio più ampio».
“Che te ne fai di una città quando hai un quartiere?” scrive Lorenza. Il filosofo Emanuele Coccia dice che abitare non significa occupare una certa porzione dello spazio terrestre, ma intrecciare una relazione intensa con certe cose e certe persone. Qual è il modo migliore di abitare questa città?
LG: «Se riesci a vivere in un raggio percorribile a piedi o in bici, ciò che conta è chi vedi ogni giorno. Il modo migliore è intessere relazioni con i propri condòmini e con le persone che animano quella zona, come i negozianti. A Milano ho vissuto in un condominio di ringhiera dove c’era un grande senso di comunità. Le relazioni umane sono il modo migliore per abitare la città».
Dunque attraverso la mediazione di un luogo più piccolo: la città non si può abitare nella sua interezza …
MB: «Noi non siamo capaci di vivere la città o il cosmo, ma ci ricaviamo il nostro cosmo nel cosmo. Per quello che riguarda Milano, la cosa interessante che mi premeva di raccontare è il fatto che in una grande città ci siano delle comunità inconsapevoli. Abitiamo nella stessa via, nello stesso quartiere, ci siamo conosciuti o sfiorati, e non sappiamo di formare una comunità: se abitassimo in un paese più piccolo, lo sapremmo».
La città rappresenta anche un ventaglio di possibilità quasi inesauribile.
MB: «Posso andare a un concerto jazz, vedere un film d’essai, andare a mangiare messicano, anche se stasera poi starò a casa a mangiare fusilli con i miei figli. Ma sapere che io possa fare molto altro è fondamentale per il mio benessere interiore».
LG: «Ho avuto un figlio da poco e sono due anni che quasi non riesco a uscire, ma il fatto di sapere che queste possibilità ci sono mi fa stare bene. Medito spesso di potermene andare, magari in una città più piccola, ma forse lo faccio proprio per poter rimanere. Ogni giorno sento fortissima questa dialettica, ma la dialettica mette in equilibrio la mia decisione di restare a Milano».
Gea fa esercizio di gentilezza. Nel libro di Marco mi viene in mente la storia del barista Roberto e della tossica senza tetto. La gentilezza, oltre a essere l’esercizio della propria disposizione verso gli altri, può avere un valore sociale e politico?
LG: «La gentilezza va in contrapposizione al potere. Se tutti la esercitassimo in qualsiasi ambito della nostra vita, non solo questo avrebbe un effetto catartico in senso collettivo, ma diventerebbe anche contagioso».
MB: «Non credo che la gentilezza del singolo sia davvero moltiplicativa. La gentilezza poi non è una dote innata, ma un’acquisizione dell’educazione. Si dovrebbe insegnare di più, perché la gentilezza è un passe-partout che consente di aprirti agli altri».
La gentilezza come forma applicata di democrazia. Che ruolo può avere in questa direzione la letteratura?
LG: «Tutto si lega all’empatia: leggere è un esercizio di empatia. Se sei più predisposto a essere empatico verso l’altro, è normale essere gentile. La gentilezza viene spesso fraintesa e presa come un segno di fragilità: le persone sono spaventate dall’essere gentili perché hanno paura di sembrare deboli o attaccabili».
MB: «La letteratura ti propone delle storie diverse dalla tua nelle quali rispecchiarti. La letteratura muove sempre un’operazione di avvicinamento che ti spinge a considerare di più l’altro nella sua umanità, dunque in maniera più gentile. Parliamo di educazione alla sessualità, all’affettività, alla parità, ma con l’educazione alla gentilezza sarebbe come tenere tutte queste cose in un contenitore ancora più ampio».
Cafè Royal, il Nuovo Mondo. Che ruolo questi posti hanno nelle vostre storie?
MB: «Il bar, il Café Royal, è il punto di regia, il palco della mia commedia umana. Non ripropongo la retorica dei bar come luogo di scambio di comunità, com’era nelle canzoni di Jannacci. Secondo me non è più così. Il bar oggi è un luogo dove vedi sfilare delle vite differenti dalla tua. Il bar è volutamente al centro della via: è il punto di incrocio e osservazione informale della diversità. L’osservazione dell’altro è sempre un buon modo per relativizzare la propria esistenza e i propri giudizi».
LG: «Nel mio caso Nuovo mondo è un negozio di rigattiere chiuso da anni, che riapre solo per essere venduto al miglior offerente. È per me la metafora del cambiamento che sta avvenendo in città. Il negozio è il motore delle relazioni, la ragione per cui la mia protagonista si apre agli altri per poterlo salvare. Quel luogo diventa così il catalizzatore di molte vite, dei molti desideri di realizzazione personale degli altri personaggi: attraverso il negozio trovano l’occasione di avere un progetto comune, di esprimersi e trovare il loro posto nel mondo».
Il cambiamento della città, i grandi progetti di gentrificazione e riqualificazione tipici di Milano che portata hanno?
LG: «In città c’è stata una grande riqualificazione del centro. In alcune sue parti il centro di Milano è sempre stato molto popolare: per esempio Porta Romana è sempre stato un quartiere stratificato dal punto di vista sociale. Gli interventi di riqualificazione fanno alzare i prezzi del mercato immobiliare e le persone che hanno abitato lì da sempre sono costrette ad andarsene. Noto uno svuotamento anche nei quartieri storici, che corrisponde a un impoverimento dell’atmosfera e dello spirito di quel luogo. Attraverso la riqualificazione spesso si perde la vivibilità».
MB: «Io sono sempre stato uno scrittore di periferie e di mondi molto calpestati. Per me uscire dalla zona di confort è stato tentare di raccontare via Marghera. Per quanto riguarda la città: finché non si riesce a tenere insieme tutto il cosmo di una metropoli, il centro con la periferia, le modernizzazioni diventano un’ulteriore contrapposizione. E finiscono con il rendere la città strutturata su binari paralleli. Con conseguenze umane e sociali che non possiamo permetterci. Le periferie sono un laboratorio, fucina di umanità e nuove visioni del mondo. Non possiamo permetterci di lasciarle indietro».