Tre anni fa la terribile deflagrazione che ha distrutto il porto della capitale libanese. Lo spettacolo del drammaturgo Sulayman al-Bassam ricostruisce sugli ultimi istanti prima della catastrofe

È lo stupore che ancora domina, nelle menti di ogni libanese e di ogni arabo, a tre anni dalla più grande esplosione non nucleare della storia del mondo. È lo stupore, quasi l’afasia, per l’esplosione che il 4 agosto 2020 alle 18,07 ha distrutto il porto di Beirut e tutta l’area circostante. Ben 2750 tonnellate di nitrato di ammonio esplodono dopo ore e ore di combustione, il cielo della capitale libanese viene squarciato da un fungo che ricorda, nella potenza e nelle proporzioni i funghi atomici. E nessuno, a oggi, ha scritto una pagina che spieghi il perché ai morti, duecento, e ai feriti, oltre 7mila.

 

È la stessa città di Beirut una delle vittime, con poco meno di 80mila appartamenti distrutti e quartieri dilaniati dall’esplosione. La memoria fa tornare alla gola il sapore amaro della città distrutta dalla guerra civile che si è conclusa nel 1990, e dagli ultimi bombardamenti israeliani del 2006. «Ho voluto disegnare ogni quartiere com’era prima, com’era sulla mappa, in ogni dettaglio. Era un modo per riappropriarsi di ciò che è stato distrutto», ha detto Lena Merhej, una delle più importanti illustratrici libanesi, un’artista che sceglie la città come protagonista e simbolo. Lo aveva fatto Fayrouz, una delle stelle del firmamento musicale arabo, dedicando alla città il suo brano iconico, “Li Beirut”, e cantando versi che oggi mettono i brividi. «Un sapore di fuoco e di fumo», una «gloria fatta di ceneri».

La città, la catastrofe di Beirut è al centro, da anni, di un palcoscenico virtuale su cui artisti e intellettuali arabi si interrogano sui perché. Non solo i perché dell’esplosione del 4 agosto 2020. Anzi, Beirut diviene il simbolo del più complessivo malessere arabo. È infatti anche da lì, dallo scheletro dei silos del grano ancora in bilico nel porto, che parte la riflessione su una intera regione sottoposta «a una guerra permanente che non è neanche percepita come guerra, quanto piuttosto come una programmatica eliminazione dello spazio, dello spazio mentale, della lingua, della cultura». È così che la definisce Sulayman al Bassam, uno dei più noti uomini di teatro arabi, perfetto ritratto di una intellighenzia che, se può, fa dell’attraversare frontiere una condizione di vita. E se non può più attraversare confini, ingrossa le fila di una diaspora araba sempre più numerosa in città-rifugio come Berlino, Londra, New York.

 

«L’esplosione a Beirut è stata rivelatrice di più di un crimine di carattere sistemico. È stato, per esempio, il simbolo del degrado della struttura morale nell’intera regione e oltre. L’esplosione è un segnale che ogni singola persona, nella regione araba, leggerà a suo modo. È per questo che assume un potere metaforico catastrofico», spiega Sulayman al-Bassam, una lunga esperienza nei teatri europei, con una particolare predilezione per Londra. Lo dice a margine di Welcome to Socotra, il festival estivo di satira, teatro civile e danza che la Fondazione Feltrinelli ha organizzato nella sede di viale Pasubio a Milano con un occhio speciale alla produzione araba.

 

Sulayman al-Bassam ha messo in scena al festival una pièce teatrale in prima nazionale dedicata proprio al 4 agosto 2020, di cui ha curato drammaturgia e note di regia. A cominciare dal titolo, “Mute” è un vero e proprio work in progress sui minuti che hanno preceduto l’esplosione all’interno di una stanza che guarda la città e il mare, uno spettacolo dedicato al silenzio, all’incapacità di dire e di spiegare, al rischio di rimanere senza parole di fronte alla catastrofe. A Beirut e ovunque. A Srebrenica, a Hiroshima e a Bologna: le “nostre” catastrofi che hanno segnato le estati del mondo. Ovunque ci sia una domanda irrisolta sulle ragioni e sugli obiettivi. Ovunque ci sia un intellettuale che chiede conto a sé stesso del suo ruolo e dei suoi compiti. E sull’intellettuale e sul suo ruolo, d’altro canto, la Fondazione Feltrinelli ha deciso di dedicare, appunto, uno spazio che tracima nei suoi diversi contenitori, a partire – per esempio – dalle “Biografie non autorizzate” su Ken Loach, Isabel Allende, Uliano Lucas, Eugenio Scalfari che a settembre diventeranno podcast.

 

Il teatro politico è uno degli spazi in cui le domande scomode si fanno, mai passato di moda e d’attualità, soprattutto nella regione araba. Teatro politico per eccellenza, che Sulayman al-Bassam interpreta anche come «riconoscenza per coloro che, nonostante quella domanda sia sempre lì, nella stanza, sono capaci di continuare la ricerca di un significato e la difesa della dignità». Il teatro come responsabilità e come «uno spazio molto vicino a quella che io considero la libertà. È uno spazio fragile, e non è uno spazio reale. O meglio, è uno spazio iper-reale». L’obiettivo di questo tipo di performance, per il regista di origine kuwaitiana, è «mettere il pubblico nelle condizioni di fornire, ognuno per proprio conto, una risposta, la sua risposta individuale a queste domande».

 

Per una regione in cui «i giornalisti, gli artisti, gli intellettuali sono bersaglio», come sottolinea Sulayman al-Bassam, è fondamentale e prioritario proteggere «uno spazio pubblico che è sempre più sotto attacco e che si sta restringendo» perché è lo spazio autoritario che si espande ogni giorno di più. Una lezione che ha già attraversato il Mediterraneo.