Intervista
Domenico Iannacone: «Il servizio pubblico è una responsabilità collettiva»
«I giornalisti in tv antepongono sempre la loro immagine e il racconto diventa stereotipo. O pornografia. Invece questo mestiere deve servire ad aiutare gli altri». Da "I dieci comandamenti" a "Cosa ci faccio qui" il "marziano" della Rai ha sempre imposto la sua cifra, tra neorealismo e metrica poetica, su un fondo di vera umanità. Ora, dopo quasi due anni di silenzio dovrebbe tornare in prima serata. E qui si racconta
Domenico Iannacone ha una faccia che sembra scolpita nel legno. Come un albero, che ha piantato le sue radici nelle storie che racconta, con ostinazione e fedeltà e che non abbandona mai, giorno dopo giorno, dalla televisione alla vita, senza soluzione di continuità.
Con “I dieci comandamenti” prima e “Cosa ci faccio qui” poi, Iannacone ha inventato un registro giornalistico personalissimo, una sorta di visione marziana in cui il racconto dell’altro fosse sempre in primo piano. «Io non amo parlare quando non serve, detesto il protagonismo. Se mi avvicino a una storia devo fisicamente dargli uno spazio vitale, per far sì che diventi di tutti». Eppure, nonostante il credito assodato, la fidelizzazione che è stato capace di costruire con il pubblico con un lavoro carnale, dall’ultima volta che è stato avvistato in tv sono passati quasi due anni. Poi il silenzio.
Certo, difficile trovare un posto in Rai per l’empatia, l’accoglienza, lo sguardo sugli ultimi. «Hanno detto che si trattava di un problema coi diritti del format, insomma questioni diciamo pretestuose. Ora dovrei tornare, dicono, a maggio, con cinque prime serate, ma nel frattempo dovevo tutelare il mio progetto, conservarlo, lasciarlo in vita». Così è salito sul palco. «Ho pensato che il teatro potesse essere il modo giusto, un’azione di resistenza civile». In giro per l’Italia con piccole storie prese per mano, una forma inedita di inchiesta che segue passo dopo passo la persona, per darle una voce che non ha mai avuto.
«Prendiamoci un caffè al sole», dice e mentre si racconta con generosità, sorride a chi si avvicina per un piccolo aiuto, «scusami, ho solo questo», «scusami, vatti a prendere un panino», «sì certo ti compro una sciarpa, che devi tornare in Marocco dai tuoi». È un’anomalia televisiva Iannacone, nato a Torella del Sannio, un paese di 750 anime da cui è scappato e poi tornato. «Perché, ebbene sì – e sorride – il Molise esiste. La mia formazione in quella terra che amo è stata molto rigida, una vita improntata al sacrificio, al rigore, ma anche al senso dell’orientamento morale. Mio padre, e mi commuove ricordarlo, aveva un’etica incredibile, piuttosto non si pagava lo stipendio ma guai a toccare i contributi degli operai. Oggi si vede solo una scomposizione generale, invece quel periodo, quel modello mi ha fornito la capacità di andare nei luoghi e non perdermi mai: è come se comprendessi sempre i bisogni di chi mi trovo di fronte».
Ma come è cominciato tutto? «Beh, il prete del paese amava bere, mia madre aveva un negozio e lui aveva un ciclostile di ultima generazione. Così io gli portavo le bottiglie di Cynar e lui me lo faceva usare. Poi a 17 anni ho scritto ad Amelia Rosselli e lei non solo mi ha fatto pubblicare sulla Tartaruga ma quando sono scappato a Roma mi portava a casa di Attilio Bertolucci, parlavo con Caproni, con Luzi, frequentavo i grandi poeti del secondo Novecento. Insomma, una bella scuola. Sono cresciuto con la poesia e per me è un punto di riferimento. Se racconto una storia cerco sempre lo spazio metrico».
Un marziano, appunto, di fronte al quale viene spontaneo chiedersi cosa c’entri un giornalista che cura le storie come se fossero petali, con il mondo sgualcito della televisione. «Io? Io non c’entro niente. Davvero niente. “Cosa ci faccio qui” è sì il titolo del mio programma ma è anche una domanda che mi faccio spesso. Ho vissuto fasi in cui mi chiedevo se avesse senso fare questo lavoro, alla fine mica è obbligatorio. Anche se all’inizio non mi volevo arrendere e ho fatto davvero di tutto. Il lavapiatti, ho lavorato in un centro che lavava i cani, scaricavo ai mercati generali. Poi ho venduto i salumi, ero bravissimo e questo mi ha dato l’indipendenza economica per provare a fare il giornalista».
Così, dopo la stampa locale è arrivato il primo contratto con la Rai, con “Okkupati” («erano i tempi in cui la doppia kappa del titolo era considerata eversiva») poi “Ballarò” e infine “Presa Diretta”. «Ma io avevo il cinema dentro, come un’urgenza. Avevo bisogno di trovare una dimensione più intima, per raccontare quello che succedeva dentro alle persone». Bella immagine “il cinema dentro”, rende l’idea. «Vero? Io tendo sempre a cercare gli archetipi, a trovare le mie storie porgendo attenzione al mondo che mi circonda. Il mio primo grande elemento di formazione sono stati i film di De Sica. “Ladri di biciclette” per me è una sorta di bussola, cioè l’idea di trovare il mondo in una storia minima, quasi impercettibile. Quando ho cominciato a fare quegli esperimenti, mi rendevo conto che riuscivo a comprendere cos’era accaduto ai luoghi, alle persone, alla società in generale, nel bene e nel male. Ed è questo che ti fa porre le condizioni anche per immaginare dei correttivi». Dei correttivi? Come se questo mestiere potesse persino essere utile, anche questa sembra un’immagine aliena. «Ma certo, per questo trovo vitale tornare sulle storie che ho raccontato per vedere che cosa è successo, provare a correggere le storture, trovare una soluzione. In genere il nostro giornalismo non lo fa mai di seguire le storie, non cerca il tempo della sedimentazione».
Iannacone invece quel tempo lo cerca e spesso lo trova. Tutti i nomi che gli sono passati sotto gli occhi delle sue telecamere sono rimasti dentro di lui. C’è Michele, che viveva in macchina, e aveva perso tutto. «Quando l’ho risentito mi ha detto: “Non mi sono andate tanto bene le cose, non mi hanno pagato durante il Covid”. Adesso si è comprato un pezzo di terra sulla montagna, si costruirà una casa lì, da solo…». E c’è Giulia che viveva coi suoi figli in 30 metri quadrati: «Dopo il servizio feci una sorta di campagna in suo favore, ho chiamato tutti. Adesso lei la casa l’ha avuta e mi ha scritto, guarda, mi ha mandato il video per ringraziarmi, e questo vale più di mille premi».
Una visione abbastanza inedita di quel che significa il giornalismo ai nostri tempi. Ma che viene dall’esperienza vissuta. «Sì, una volta feci un lavoro nell’ex fabbrica della penicillina a Roma, sulla Tiburtina, e incontrai una donna con una storia incredibile, allontanata dalla famiglia, una figlia data in adozione, finita in questo ghetto senza speranze. E a un certo punto mi dice: “Portami via da qui, ti prego, portami via”. Io sono tornato ma lei non l’ho più trovata, non so che fine abbia fatto. E questa cosa mi è servita davvero a capire che l’azione del giornalista è sociale, se affrontiamo una storia, in quel momento specifico con quei determinati protagonisti è perché dobbiamo essere convinti di poter in qualche modo cambiare le cose. Non voglio essere un predatore». Dovrebbero farlo tutti no? «Beh, in fondo è solo una questione di etica, invece i giornalisti in televisione antepongono sempre la loro immagine. Anziché andare fuori si chiudono negli studi e così noi vediamo solo le loro facce mentre le suole delle scarpe non si consumano più. Insomma, il racconto diventa stereotipo se manca questo fuoco. Oppure pornografia, cosa a cui assistiamo sempre più spesso, in un palinsesto che si riempie di titoli fondati al contrario sull’aggressione».
Tempi duri e non solo per il piccolo schermo. «Sì, c’è un arretramento generale, e le persone non hanno più l’energia per la rivendicazione dei propri diritti. Mi manca la piazza, mi manca la discussione. C’è stata un’omologazione totale, e la televisione ne è diventata lo specchio. Come diceva Pasolini, in tv tutto è calato dall’alto e mai nulla arriva dal basso. Ed è il contrario di quello che provo a fare io». Manca il nutrimento, per dirla in estrema sintesi. «Esatto, e se una cosa non ti nutre non serve». E così non si cresce, e soprattutto si rischia di non far crescere le nuove generazioni. «Ai giovani stiamo lasciando solo un racconto disordinato. Prima sapevi chi era l’intellettuale, ti orientavi, mentre oggi c’è una forte mistificazione dell’essere e qui i mezzi di comunicazione hanno fatto la loro parte, sono artefici di questo meccanismo. E alla fine perdi la strada». Mi fa un esempio? «Basti pensare alla santificazione di Berlusconi. Noi abbiamo avuto anni terribili, non si può dimenticare quel tempo in cui quel tipo di cultura si è innescata e ha attecchito e ha procurato danni; eppure, lo abbiamo fatto».
Ma come la vede la Rai Domenico Iannacone? «Credo si debba cambiare registro, andare nella direzione della profondità, altro che approfondimento». La famosa missione del servizio pubblico viene da dire. «Guardi, il servizio pubblico è una responsabilità collettiva. Io ho avuto offerte esterne, ma sono stato un anno e mezzo fermo proprio perché la mia responsabilità era quella di restare in Rai, non farne una questione di soldi. Non potevo tradire me stesso e andarmene. Così ho aspettato. Perché in fondo sono ottimista, credo nell’uomo, anche se non in quello che gli sta intorno». E nella televisione? «Ci provo, anche se ha un grande limite: non ha odore».