Il ruolo di figliadel regista Luigi. Gli anni Settanta, la politica, l’invasione dell’eroina. Il nuovo film della regista, protagonista Fabrizio Gifuni. “L’unica rivoluzione riuscita? Quella femminista, ha cambiato la vita di tutti”

Sono stata un’adolescente nella seconda parte degli anni Settanta, faccio parte di una generazione che si è perduta nella decadenza di un movimento che si voleva, forse anche erroneamente, rivoluzionario e come tanti giovani ingenui mi sono presa in pieno la coda dell’invasione delle droghe, l’impatto devastante dell’eroina». A parlare è la regista Francesca Comencini, applaudita alla Mostra del Cinema di Venezia per il suo nuovo “Il tempo che ci vuole”, appena uscito al cinema. Un film commovente sul suo rapporto con il padre Luigi Comencini, interpretato da Fabrizio Gifuni, in cui la regista si mette a nudo e racconta anche gli aspetti più controversi dei suoi anni di gioventù, senza censure.

Il dibattito politico era presente in casa sua?

«Sì, certo. Abbiamo sempre parlato di quello che succedeva intorno a noi, mio padre era un uomo misurato seppur molto radicale e determinato nel suo senso di giustizia. Sempre stato socialista, mai estremista. Era un calvinista, un uomo molto laico, aveva un rigore forte ed era molto preoccupato dalla politica di quegli anni».

Al centro del suo cinema metteva i personaggi più fragili.

«I vulnerabili, quelli presi a schiaffi dalla vita, gli ultimi, e i bambini. Ha attraversato l’Italia con una cinepresa e un microfono per l’inchiesta “I bambini e noi” denunciando il lavoro minorile, ritratti straordinari della condizione infantile dell’Italia nei primissimi anni Settanta. Nel suo lavoro metteva questa idea politica».

Francesca nel film ha una fascinazione per l’estrema sinistra. È un passaggio che ha vissuto realmente?

«Più per sentito dire, per slogan anche terrificanti che si sentivano dire banalizzati. Eravamo ragazzi in formazione che ingenuamente si credevano rivoluzionari – io ero molto giovane, non capivo quasi niente, è un’età in cui ti lasci influenzare da ciò che hai intorno. Fatti che cito nel film, come il rapimento di Aldo Moro, hanno creato un trauma collettivo, segnando la fine non solo di alcune vite, ma anche di una speranza. Passaggi che volevo raccontare perché legati a un’epoca oltre che alla mia vicenda personale, come la dipendenza dalle droghe, che ha impattato molto nella mia relazione con mio padre. Mi è sembrato giusto far entrare lo spirito del tempo, anche nei suoi aspetti più terribili e vergognosi».

Che consiglio darebbe oggi a quella ragazza lì?

«“Stai più attenta”. Purtroppo e per fortuna non sono più quella ragazza lì. Coltivo il teatro sempre aperto della memoria, ma non la nostalgia. Penso che i tempi presenti siano interessanti e pieni di speranza».

Nel film vediamo una figlia mettere al posto suo un padre-patriarca, per quanto tenero con lei.

«I padri della generazione del mio, forse anche quelli di oggi, vedono nelle figlie qualcosa di perfetto, poi quando diventano donne si ripresenta il loro personale problema del maschile nel confronto con le loro stesse figlie. C’è un disagio anche nei padri più aperti e amorevoli, è un cantiere sempre aperto quello del ripensare i codici del patriarcato. E poi gli anni Settanta andrebbero ricordati anche per l’unica rivoluzione riuscita».

Quella femminista?

«È l’unica che ha cambiato la vita di tutti e tutte, e continua a farlo. Una rivoluzione che ha fatto fare un balzo in avanti a un Paese bigotto - basti pensare al delitto d’onore - sono libertà fragilissime e i contraccolpi di questa rivoluzione li viviamo tuttora, in molti uomini spaventati da un orizzonte di libertà e rimessa in discussione di codici millenari. Abbiamo conquistato libertà che sembravano impossibili, ma è importante tenere a mente che sono recenti e molto fragili».

Ne è la prova che ancora si discute sul diritto all’aborto.

«Quando le democrazie sono messe in discussione, in Italia e nel mondo, si attacca sempre il corpo delle donne, indicatore allarmante. Più che parlare di diritto all’aborto io vorrei parlare di autodeterminazione e diritto alla salute riproduttiva, di cui la possibilità dell’interruzione volontaria di gravidanza fa parte. E sì, incredibile che anche oggi si torni lì, a mettere in dubbio la libertà di decidere del proprio corpo, è agghiacciante. In compenso c’è una gran quantità di donne, ragazze e anche giovani uomini che non accettano limitazioni e sono pronti a scendere in campo e battersi».

Perché oggi il femminile fa ancora paura?

«Le donne hanno un’enorme forza e fa paura. Una forza che non deve somigliare all’arroganza, al gioco prepotente che il patriarcato ci ha imposto, dobbiamo stare attente a disfarcene. Intendo quella forza erotica, vitale, di dare la vita e decidere se farlo o non farlo. Siamo forti, ma in un altro modo, per questo facciamo paura, delle volte anche a noi stesse. Io, nel mio piccolo, mi sono impegnata a praticare questo lavoro senza il concetto patriarcale del capo».

A capo del governo oggi c’è una donna.

«Paradosso interessante, la destra ha portato una donna al governo. Per quanto sia di idee lontane dalle sue, rispetto il fatto che Giorgia Meloni sia la prima ministra d’Italia, e lo voglio dire al femminile. Adesso abbiamo anche una segretaria del Pd donna, Elly Schlein, quindi le cose forse stanno davvero cambiando».

Oltre dieci anni fa partivano le prime riunioni, e poi manifestazioni, del movimento “Se non ora quando”, di cui è stata pioniera.

«Ci fu una grande collaborazione con mia sorella Cristina, fummo molto unite in questo movimento nato in maniera libera. Ci davano delle femministe fuori di testa, speriamo di aver aperto delle strade. Quando vedo giovani colleghe che crescono sono felice, perché penso che il cinema italiano sia ancora un gioco per soli maschi e da tutta la vita mi batto affinché non lo sia».

Suo padre è stato un maestro indiscusso. Oggi si sente un po’ maestra anche lei?

«No, affatto. Se ho un merito, forse, è aver creato personaggi femminili forti, contrastanti, contraddittori. Donne non per forza vittime, non per forza buone, anche cattive, stronze, sbagliate».

E personaggi maschili vulnerabili.

«Credo sia fondamentale, riconosco a mio padre di essere stato un modello di maschile forte ma mai prepotente, in grado di essere anche vulnerabile. Una narrazione importante per liberare l’idea tossica e patriarcale di cosa sia la forza: raccontare che si può essere forti in un altro modo penso possa liberare molti uomini e rassicurarli».

La lezione più grande che le ha lasciato suo padre?

«Prima la vita, poi il cinema. E anche “fai i totali”, cioè fai capire a chi guarda il contesto. Quello che mi resta soprattutto di lui è la sua voce dolce, quel modo di parlare in cui capivi quello che stava dicendo, perché si prendeva il tempo di spiegarti le cose. E poi il suo rispetto per chiunque lavorasse con lui, perché il cinema, diceva a ragione, è sempre un lavoro di squadra».