Società
C'era una volta il cinema
E c’è ancora. Anche se sempre più spesso le sale cinematografiche diventano contenitori di attività diverse dalle proiezioni dei film. Imprevisti e riscoperti spazi di socialità. Dai laboratori per bambini alle feste di compleanno, dai corsi di formazione ai palinsesti condivisi con il pubblico
La morte del cinema somiglia alla morte dell’arte, del giornalismo, della filosofia. Somiglia alla fine romantica di qualcosa che sotto-sotto non finirà mai. Perché non vuole finire mai. Perché in fondo non si vuole, benché lo si snobbi, che il cinema finisca. Un po’ come non si vuole smontare le cabine telefoniche a Londra o gettare nella pattumiera il vinile. Delle sale in fase calante, di quelle che erano già postume a sé stesse eppure sono ancora lì, scrisse a suo tempo Ennio Flaiano. Non in veste di diarista ma di sublime sceneggiatore. Di addetto ai lavori che lamentava, già nei Settanta, come non si andasse più al cinema per il cinema bensì al cinema per il film. Come non si andasse nel centro cittadino per godere del buio, dei fumi, degli amoreggiamenti a luci spente, ma ci si dirigesse nei multisala in zona industriale per l’acustica, il mastodontico schermo, i primissimi effetti speciali. E fu già nei Settanta, almeno secondo lo scrittore, che il cinema inteso come abitudine e fenomeno sociale era bell’e finito. E si affacciava, piuttosto, il cinema come fatto individuale: la sala arida; il pixel tirato a lucido. Quello che, di anno in anno, portò dal grande al piccolo e poi dal pic- colo al micro schermo. E dunque ai film in piattaforma che non son tanto esperienza quanto experience. Ossia audiovisivo in streaming che tiene incollati al display 8 italiani su 10 e che, secondo gli ultimi dati JustWatch, vede salda al primo posto la piattaforma Netflix, appena dopo Paramount e terzo sul podio Disney Plus. Ed ecco quindi che se il grande schermo uccise la radio, così l’online uccide oggi il grande schermo. Ecco che, anziché seppellire il morto, s’affaccia oggi la tendenza a tenerlo in casa. A incensarlo e patinarlo di romanticherie. Ed è giustappunto di cinema romantico (e semi-morto) che scriviamo. Perché da Trieste in giù, oggi, non si va tanto in sala a vedere il film (a portata di click sul telefonino), ma la gente. Quella strana creatura che nei Settanta sembrava estinta e che, in un capovolgimento di usi e costumi ulteriore, torna ora in sala in forza dell’evento, della socialità, dell’iniziativa. Torna in forza della santa voglia di vivere che schioda dal divano e da Netflix e disegna una panoramica sulle nuove forme di vita o, se preferite, sulla nuova sopravvivenza del cinema.
NETFLIX O LA MISTICA DEL DIVANO
I Venti sono i nuovi Sessanta, si dice, ma attenzione. Perché non parliamo di età anagrafica, qui, bensì di decenni del secolo scorso e di quello nuovo, con la sala che si riempie in forza di socialità. E certo è una parola socialità – che pareva relegata all’altro secolo (tra cineforum e collettivi). Ma che invece, ove mai vi trovaste al cinema Troisi a Trastevere, vedreste brillare dalla sala al bar, dalle aule studio agli incontri con Paolo Sorrentino, nei giorni feriali, e Francis Ford Coppola nei giorni di festa. Epperò del Troisi – tempietto hipster fuoriuscito da un verso dei Basutelle – sappiamo già tutto. E quel che ci sfugge, invece, son le piccole pepite disseminate qua e là. I cinema di provincia che resistono nell’Italia profonda e persino riaprono, a dispetto di Netflix e Prime, come accadde dieci anni or sono al Modernissimo di Perugia. Che grazie alla cooperativa Anonima Impresa Sociale si ridestava sotto il nome di PostModernissimo insieme alle “succursali” Metropolis a Umbertide e Astra a San Giustino. Ebbene, al PostModernissimo gli spettatori soci partecipano dieci anni dopo alla direzione artistica. Sono loro, nientemeno, quasi fossero i (tele) comandanti sul divano, che programmano di concerto il calendario dei film e suggeriscono d’invitare questo o quel critico acciocché la sala diventi comunità. In un misto fra Netflix e cineforum. Uno dei fondatori, Giacomo Caldarelli, parlava tempo fa della composizione del pubblico. Una platea “prosumer”, direbbero gli sciamani del marketing, e cioè “produttrice” e “consumatrice” insieme che, essendo composta da giovanotti non meno che anziani, chiedeva di anticipare lo spettacolo della sera dalla 21.30 alla 20.30. E dunque forum, programmazione condivisa... La sala che insegue Netflix e che agli anni Sessanta di fermento culturale somma ancora l’ambizione della comfort zone. Perché – socialità a parte – il desiderio di poter vedere ciò che si vuole, quando si vuole, e forse anche “come” si vuole è un tema che sovente sfugge ma che potremmo riassumere, ancora, nella “mistica del divano”. E cioè nel fatto che non si guarda più il film per il film (come lamentava Flaiano), ma si guarda qualunque cosa a patto d’appagare le ambizioni massime dell’uomo nuovo. Quali? Le terga sul divano, ovviamente. Il sedere sul cuscino e il pigiamino riconvertito in tovaglia con il cibo ordinato a mezzo Glovo. Ed ecco quindi come, anche qui, il cinema in crisi insegue Netflix. Ecco come, dopo la socialità, anche la comodità rincorre le nostre terga svogliate. Un esempio? A Napoli, in via Crispi, esiste il cinema Hart. Un monosala inaugurato nel 1968 e riaperto nel 2015 che s’ispira all’Olympia Music Hall di Parigi (il cinema con i “king size” di Ikea) e al Kinostar De Luxe di Mosca (pantofole, piumoni, morbidezza e grandeur imperialista). E si propone quale “spazio d’intrattenimento” capace di sintetizzare le passioni del Belpaese che sono il mangiare, manco a dirlo, e il dormire (le stesse di cui Netflix è catalizzatore). In via Crispi, a Napoli, lo spettatore troverà perciò una buvette con cucina interna ma soprattutto letti matrimoniali e poltrone. Hart offre poi concerti, musica dal vivo, intrattenimento meno soporifero... Ma si capisce, comunque, che i corni strategici sono due: materasso e bistrot. Socialità, come a Perugia, ma pure comodità. Tanta gente e tanto comfort che sono le chiavi di volta del nuovo cinema paradiso. Non a caso, noi inurbati romani amiamo molto le poltrone, il poggiapiedi e il bar del mitico Barberini...
DA UN ESTREMO ALL’ALTRO: IL CINEMA-RELIQUIA E LA LUDOTECA
C’era una volta il cinema, quindi, che in questo secolo c’è e non c’è. C’era una volta il cinema che cambia per non morire e che, dalla provincia alla metropoli, arriva persino al villaggio. Al romanticismo in purezza che circonfonde l’agonia. A Longone Sabino, il paese di 513 abitanti in provincia di Rieti, più che un cinemino fa capolino ‘U Cinemittu. Il cinema più piccolo d’Europa sito a ottocento metri d’altezza e con solo dodici posti. Dodici sedie anni Venti (secolo scorso) e spettacoli tutto l’anno patrocinati da Luca Marinelli che nel 2023 presentava Otto Montagne alle 500 anime (in pratica, il paese intero) accorse nell’immobile che fu in passato un ufficio postale. Ed ecco. Al Cinemittu di Longone Sabino, che attira uomini donne e hommes de lettres (frequentatore assiduo è Erri De Luca), la forza è tutta nella botte piccola. Nell’idea ultra romantica d’un Davide contro Golia e cioè nei 12 posti che fanno cultura contro i miliardi di Netflix. «Questo cinema è un luogo che appartiene a ogni persona», diceva giustamente Marinelli. Eppure è un luogo – dettaglio – che è stato riaperto in concomitanza dell’apertura d’un’Antica Osteria chiusa da quarant’anni. Perché va bene la cultura, ma si sa che in Italia tira sempre più lo spago d’un carrozzone coi vip... Comunque, quello di Longone Sabino è il cinema-gioiello, si diceva. La reliquia per eletti al cui polo opposto – ci s’inventa di tutto – svettano oggi i cine-ludoteca. E cioè i The Space che nella nostra memoria di bambine degli anni Zero si chiamavano Medusa – come la gorgone – e sembravano al tempo immense astronavi. Spazi mitologici e avveniristi oggi trasformati in relitti. Ovvero Mammut, ai margini cittadini, che adesso tentano di riprendere vita attirando i pochi bambini con feste di compleanno (occasioni per le quali non s’invidia chi è mamma né le chat delle mamme...altro che gorgoni!). Ad ogni modo – tornando a noi – come esiste l’orgoglio del villaggio così esiste il “baby pride”. L’orgoglio delle mamme che è giustamente cavalcato dal cinema commerciale vendendo cartoni animati per il compleanno.
Con i The Space che offrono oggi biglietti a prezzi scontati, film a scelta, popcorn, nachos, hotdog... Poco romantico? Forse. Rispetto al letto partenopeo, certo che sì. Ma tant’è. Ed è il cinema, appunto, che per non mori- re torna alla sua essenza: la socialità. È il cinema che, come diceva Hitchcock, altro non è che “la vita senza le parti noiose”. Ora più che mai. Ossia la vita fatta di feste, passerelle, cineforum al Troisi e food and beverage in Umbria. Cine-panettoni e cine-champagne come a dire che il cinema è morto, sì... ma insomma: viva il cinema!