”Splendida cornice” è un programma intelligente, satirico, assai alto. Ma alla portata di tutti. Una meta-televisione che ricostruisce la pochezza abituale, la ricuce per bene e la rigenera in esercizio satirico

Rai cultura ha l’improntitudine di presentare “Splendida Cornice”, si legge mentre partono le note della sigla, e basterebbe questo per essere soddisfatti di un programma che l’ultima volta che era andato in onda, nella scorsa primavera, «esisteva ancora Rai Tre». 

 

Geppi Cucciari è tornata nel suo studio, con la cartellina stretta tra le mani, il sorriso impunito e accogliente e quella capacità endemica di tenere ogni frase in bilico sul filo dell’ironia dei tempi passati, quella colta ma alla portata di tutti, come una giocoliera che lancia le parole senza farle mai cadere nel vuoto. 

 

E questo suo modo di essere ancor prima che di fare, quello che le permette di sbriciolare un ministro della Cultura dopo l’altro, di uscire indenne persino dal tavolo della giuria di “Tale Quale”, che la fa saltellare dal teatro allo studio di “Amici” senza smuovere di una virgola la sua integrità satirica, all’improvviso viene vista come una dote mirabile da tenere da conto e curare come un panda in estinzione. 

 

Eppure la televisione che abita Geppi Cucciari col suo stile inconfondibile, altro non è che l’intrattenimento come dovrebbe essere. 

 

Ormai l’abitudine al buono spettacolo è andata perduta, trascinata via dall’onda anomala del pressapochismo, e ogni qual volta si presenta un programma, un intervento, una partecipazione nel segno dell’intelligenza, il povero spettatore disabituato deve riallenarsi alla visione e, come al ritorno alla tavola gaudente dopo una dieta stretta, assaggiare poco a poco per non rimanere sopraffatto dai sapori variegati. E la cosa più divertente è che Cucciari e la sua allegra brigata di autori questo sembrano averlo capito assai bene. Non a caso quest’anno più del solito schiaccia all’impazzata il pedale proprio su quel che passa il convento del piccolo schermo.

 

 Dalla battuta sull’artista Vespa («“Porta a porta” è un’opera di fantasia su Avetrana») all’omaggio a Mike partigiano, dal rifacimento di “Rumore” che fa rima con «Vanno tutti al Nove» ai covi a prima svista presentati dall’agente immobiliare del programma dei record. Fino al suo irresistibile Giletti con “Non è lo stato delle cose”, che cerca a tutti i costi di impennare gli ascolti con le inezie, chiama i cameraman per nome, si agita stando ferma sul posto e sulla ragazza nigeriana che ha salvato un uomo dall’alluvione di Catania domanda, con lo sguardo a fessura: «Dopo il lavoro vengono a rubarci anche gli atti eroici?». Come dire, più Giletti di così si muore. 

 

Insomma, una meta-televisione che ricostruisce la pochezza abituale, la ricuce per bene e la rigenera in esercizio satirico. Facendoci sentire tutti parte dello stesso quadro. Tanto alla cornice ci pensa Geppi.

 

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DA GUARDARE 

È tornato il tocco di Giovanni Benincasa. Nel nuovo format (Rai Play) “Conversazione”, un personaggio famoso riceve le telefonate dal pubblico e si presta a rispondere. Ma lo spettatore deve dire cose interessanti, non banali e tenere alto il livello del dialogo. Altrimenti arrivederci e la chiamata viene interrotta.

 

 

MA ANCHE NO 

«Era Giulia Cecchettin quella caduta nella dipendenza, non Filippo Turetta», dicono con noncuranza nello studio del programma di Rai Uno “Storie italiane” durante l’ennesimo inutile dibattito. Un "victim blaming" da servizio pubblico. E il senso della televisione per la violenza sulle donne è tutto qui.