Opere restituite ai popoli che le hanno realizzate. Prestiti ventennali di sculture antiche. E testi femministi e inclusivi. In tutto il mondo le istituzioni cercano nuovi criteri di collezione ed esposizione. Dalla newsletter de L'Espresso sulla galassia culturale araboislamica

«Sembra di stare in un museo»: lo si diceva fino a qualche tempo fa di un posto in cui non succedeva mai niente di nuovo, dove tutto era stato deciso una volta per sempre. Altri tempi. Da quando ha preso piede in tutto il mondo l’idea di decolonizzare le collezioni esposte o conservate nei magazzini, e di rendere l’esposizione di opere e oggetti più inclusiva e più rispettosa delle diverse culture, non passa giorno senza una novità nelle sale più amate da studiosi e turisti. In una frenesìa che scopre legami nella necessità di riscrittura tra luoghi diversi come il Prado e l’Australian Museum di Sidney. E che unisce nello sforzo di esporre reperti unici e preziosi una delle istituzioni più famose del mondo, il Metropolitan di New York, e il Museo Civico di Lanuvio, antico borgo del Lazio soprannominato “la finestra dei Castelli Romani”.

 

Il museo del Prado ha voluto affrontare un problema particolare: sono state modificate in termini più rispettosi ed inclusivi tutte le etichette e le spiegazioni di quadri che contenevano frasi e parole considerate oggi offensive, da “nano” a “handicappato”, per non parlare delle donne presentate semplicemente come “moglie di” un personaggio famoso. Normalmente invece, il problema è la provenienza dei reperti. 

 

Ci siamo già occupati della complessa opera di decolonizzazione che ha portato a rivoluzionare il Museo delle Civiltà, nel quartiere Eur di Roma, che è nato dalle ceneri del Museo delle Colonie di epoca fascista. Un lavoro simile ha portato i curatori del museo di Manchester a restituire agli aborigeni australiani un’intera collezione di manufatti. E mentre l’Australian Museum di Sidney ha restituito due teschi umani che erano nella sua collezione, la quantità di progetti di esposizioni esclusivamente di opere di “First Nations” ha portato a polemiche sui giornali australiani perché la sincera aspirazione a ripianare i torti del passato non spinga a passare da un eccesso all’altro. 

 

E ha fatto scalpore la decisione di chiudere il padiglione dedicato ai nativi americani nel famosissimo American Museum of Natural History di New York (quello di “Una notte al museo”), nell’impossibilità di ottenere le autorizzazioni richieste dalle nuove norme federali dalle diverse popolazioni dalle quali provenivano i manufatti esposti.

 

È ancora aperta la questione dei bronzi del Benin, sculture realizzate dal popolo edo che furono razziate e portate in Europa ai tempi della colonizzazione. Germania e Gran Bretagna hanno restituito decine di bronzi, ma ora si è aperta una controversia su chi sia il legittimo proprietario: se la Nigeria (Benin City, capitale del regno edo da cui provengono i bronzi, è oggi in territorio nigeriano) o l'erede diretto del re in carica all'epoca del saccheggio.

 

Su controversie come queste ovviamente incombe il macigno della disputa tra Grecia e Gran Bretagna riguardo al fregio del Partenone. Qui non siamo direttamente in tema di colonialismo (la Grecia non è mai stata colonia inglese) ma la questione è legata all’atteggiamento patriarcale del Nordeuropa nei confronti di paesi del Mediterraneo. Che erano considerati inadatti a custodire i capolavori lasciati da lontane epoche di gloria: comprando i marmi di Fidia dagli occupanti ottomani, Lord Elgin era convinto di salvarli dalla distruzione.

 

Nella disputa tra Londra e Atene si parla da qualche tempo di prestiti a lungo termine di altre opere da parte della Grecia, in cambio della restituzione. È quello che sta succedendo a New York: dove il Met ha annunciato l’esposizione per 25 anni di una collezione di statuette cicladiche, le bellissime opere risalenti al tremila avanti cristo dalle linee astratte, straordinariamente moderne. Spera in una soluzione simile anche il museo di Lanuvio, per una questione che ricorda quella del Partenone. Anche qui si parla di sculture che rimandano a un leggendario scultore greco: il fregio del santuario di Giunone Sospita (cioè salvatrice) sarebbe ispirato alle statue in bronzo realizzate per Alessandro Magno da Lisippo. Anche qui c’è un diplomatico inglese, Lord Savile Lumley, che lo compra dai proprietari del momento, l’Italia appena unificata, per metterlo nella sua villa nella campagna inglese. 

 

Le statue, lasciate in eredità dal Lord al museo di Leeds, sono arrivate in Italia prima per la mostra su Alessandro Magno al Museo Archeologico di Napoli, poi per una lunga esposizione a Lanuvio. Il direttore del Museo Civico, Luca Attenni, ha spiegato che il museo spera in un prestito a lungo termine. E in effetti non c’è paragone tra vedere queste statue nelle sale di una città inglese o a due passi dal luogo in cui sono state trovate, in una villa visitabile grazie all’iniziativa del “museo diffuso”.

 

Nella storia del fregio di Lanuvio c’è un capitolo che sembra una beffa del destino. Abbiamo detto che i ricchi nordeuropei che compravano i reperti erano convinti di salvarli dalla distruzione. E in effetti, se fossero rimaste a Lanuvio, le statue avrebbero rischiato di essere distrutte due volte proprio pochi decenni dopo l’acquisto del lord. Prima per i bombardamenti che rasero quasi completamente al suolo il paese: da Lanuvio la visibilità sul mare e sulla pianura pontina è larghissima, e gli Alleati ritenevano che la rocca nascondesse un comando tedesco. 

 

Il secondo pericolo scampato è quello della ricostruzione postbellica: una ventina di anni fa Attenni ha ritrovato una testa di marmo proveniente dallo stesso fregio, che era rimasta a Lanuvio, cementata in mezzo ai detriti con cui erano stati murati gli archi del museo pericolante. Verrebbe da dire che non avevano tutti i torti, gli inglesi, a pensare che gli italiani non fossero in grado di apprezzare fino in fondo e di difendere i loro tesori. Vero: peccato che dietro quei bombardamenti ci fossero proprio aerei inglesi…