Intervista

Teho Teardo: «Io come Dante nel Paradiso: David Bowie mi ha abbagliato»

di Emanuele Coen   15 febbraio 2024

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Le colonne sonore, il teatro, il sodalizio con Blixa Bargeld. Ora le musiche per il film di Daniele Vicari su Fela Kuti. E, dall’Irlanda a Pasolini, tanti ricordi: «La musica non cambia la vita ma aiuta a capire come poterla cambiare»

La testa a Roma e il cuore aperto al mondo, in perenne ascolto delle vibrazioni sonore più impercettibili. È così Teho Teardo, uno dei più eclettici compositori italiani. «Cerca ad ogni costo un'originalità attraverso l'ostinazione dei modelli, della ripetitività, dell'economia dei materiali e del minimalismo personale», disse di lui Ennio Morricone nel consegnargli l'omonimo premio. Era un gran complimento, nel suo stile. Oggi Teardo continua a sperimentare e scandagliare strade scoscese. La geografia aiuta: è nato 57 anni fa in Friuli, a Pordenone, la terra di mezzo che guarda alla Mitteleuropa. Ed è abituato alla ricerca e alla contaminazione fin dagli anni Ottanta: laureato in Storia dell'arte, con i suoi Meathead si immerge nella scena punk italiana degli anni Novanta, mette radici a Berlino, collabora con Blixa Bargeld (dopo il recente doppio “Live in Berlin” il terzo album è in uscita a ottobre con il tour europeo), storico leader degli Einstürzende Neubauten, fa blitz in Irlanda, incrocia David Bowie, compone colonne sonore tra cui “Denti” di Gabriele Salvatores e “Il divo” di Paolo Sorrentino. Con le sue musiche, il 21 marzo arriva in sala “Fela - Il mio Dio vivente”, il film di Daniele Vicari su Fela Kuti, leggendario profeta dell'afrobeat. «La musica non cambia la vita ma aiuta a capire come poterla cambiare», sottolinea il compositore nel suo studio romano.

La musica di Fela Kuti è molto distante dalla sua. Ha scoperto qualcosa di inaspettato?
«Con Vicari lavoro dal 2008, quando abbiamo fatto “Il passato è una terra straniera”, un gran bel film con Elio Germano e Michele Riondino. Ci siamo sempre trovati molto bene. Il film racconta la trasformazione del protagonista, Michele, che si invaghisce della musica di Fela. Stavolta ho deciso di seminare il panico: “Ti rendi conto di chi è Fela Kuti? Ma davvero vuoi fare un film su di lui? Sei un pazzo totale, non sai in che casino ti metti”, ho detto a Daniele. Per me la musica di Fela Kuti è stata molto importante, proprio perché così diversa rispetto alla mia. Per una sorta di furore ritmico ma anche politico del suo lavoro, che mi ha sempre colpito. Ritrovarmi in un film in cui c'è Fela Kuti dall'inizio alla fine mi ha messo in difficoltà».

Lei è partito dal punk. Qualcosa lega quella scena e l'approccio di Fela Kuti? La capacità di irridere il potere?
«C’è una linea obliqua che attraversa il lavoro di tanti artisti per me importanti, da Einstürzende Neubauten ai Fugazi. E tutti quanti, stranamente, sono stati affascinati da Fela Kuti. Nella sua musica c’è qualcosa di provocatorio che mi ha sempre attirato».

A proposito di personaggi provocatori, lei è in tournée con Elio Germano con due spettacoli: “Il Sogno di una cosa”, sull’omonima opera di Pier Paolo Pasolini, e “Paradiso” sull’ultimo canto di Dante. Lei e PPP avete in comune le radici friulane, è un'affinità importante?
«Non è un caso che mi sia ritrovato su un palco con Elio a lavorare a “Il sogno di una cosa” di Pasolini. È il suo primo romanzo, anche se uscì successivamente, ambientato in Friuli, a dieci chilometri da dove vengo io. Alcuni personaggi sono genitori o nonni di amici miei, è un universo che mi appartiene. Quel libro mi ha colpito non tanto per la scrittura, ma per la storia che racconta: è ambientato tra il ’48 e il ’49, un momento in cui gli italiani erano disperati per fame. I giovani scappavano e percorrevano la rotta balcanica, ma al contrario: andavano in Jugoslavia attirati dal mito del comunismo. È chiaro perché Pasolini fosse inviso al Partito Comunista: loro, infatti, arrivano in Jugoslavia e prendono un sacco di legnate, vengono massacrati, finiscono in situazioni improbabili. A un certo punto uno dice: “A casa mia almeno una fetta di salame c'era, io me ne vado. Sarà bello il comunismo, ma scappo. E non ho neanche paura delle foibe”. Purtroppo le sue parole sono cadute nel vuoto».

Una scena del film "Palazzina Laf" di e con Michele Riondino

 

Che musica ascoltava Pasolini?
«Amava molto ballare. Nei suoi film ci sono Bach e Morricone, ma poi me lo immagino che carica la sua amica Pia sulla canna della bicicletta e vanno in balera a danzare in modo sfrenato. Mi piace questo Pasolini popolare che fa le piroette nella sala da ballo della sagra locale, ma anche il Pasolini che capisce come funziona la musica di Bach e coinvolge Morricone».

Il suo sodalizio più intenso è con Blixa Bargeld, storico leader degli Einstürzende Neubauten e un tempo nei Bad Seeds di Nick Cave. A dicembre è uscito il vostro doppio album “Live in Berlin”. Come vi siete conosciuti?
«Nella prima metà degli anni Ottanta vedo i Neubauten per la prima volta dal vivo: ho paura, mi spaventano. Prima a Londra, poi a Treviso. Non mi era mai successo a un concerto. Poi l'ho incontrato a Berlino nel 1989 a un concerto degli Swans. Era tra il pubblico, gli ho detto: “Mi piace la tua musica”. Così abbiamo cominciato a parlare. Siamo rimasti connessi fino al momento in cui abbiamo cominciato a lavorare insieme».

Siete mai in disaccordo?
«Sulla musica siamo sempre in sintonia. Con Blixa è una camminata avventurosa e, proprio per questo, mette in difficoltà entrambi. Ma a me piace ritrovarmi in posti dove non avrei mai immaginato di trovarmi. Lo stesso credo valga anche per lui».

Nel corso della sua carriera ha conosciuto luoghi molto diversi tra loro. Alcuni le sono sembrati subito familiari?
«Una volta sono venuto a Roma, mi è piaciuta molto e ho deciso di vivere qui. Ora ci abito da vent'anni, ma in passato mi sono spostato tante volte. Mi è già capitato di sentirmi a mio agio in luoghi a me estranei. In Irlanda dopo mezz'ora avevo la sensazione di aver vissuto lì da sempre, mi sembrava casa, come se conoscessi le persone. A Galway, la città spalmata sull'oceano, mi è sembrato di attraversare un déjà vu, non è neanche una questione musicale perché io e la musica irlandese non abbiamo molto da dirci. Eppure lì è successo molto, in particolare ho lavorato con Enda Walsh, scrittore e drammaturgo irlandese strepitoso. È lui che ha scritto “Lazarus”, il musical di David Bowie».

Le è capitato di incrociare David Bowie all'epoca della collaborazione con Enda Walsh?
«Sì. C'è una analogia con “Il Paradiso” di Dante, a cui sto lavorando in questi giorni. Nel canto 33esimo, quello dell'incomunicabilità, Dante vede la divinità e non sa come raccontarla. Ho avuto la stessa sensazione con Bowie: mi ha abbagliato. Enda gli ha fatto ascoltare delle cose e lui ha detto: “Cazzo”. C'era anche la possibilità di fare delle cose insieme ma poi purtroppo la sua vita si è conclusa».

Che musica ascoltava da ragazzo?
«Ho cominciato con “Please Please me” dei Beatles e da allora non ho più smesso. Ho comprato il disco con i soldi che ho rubato dal portafoglio di mia nonna, che aveva appena preso la pensione. Avevo sette anni, credo. Mio padre ascoltava l'opera e la musica classica, era una specie di melomane. Puccini, Verdi e tanta musica romantica, poi mi sono imbattuto nel punk e ho seguito le sue evoluzioni».

Da musicista, quali sono i temi più urgenti dell’agenda politica?
«Più che dalla politica mi aspetterei di più dalla società civile. Dobbiamo far sentire la nostra voce, non accontentarci di quello che ci viene detto, rivendicare i nostri diritti. Le lamentele all'infinito portano a non trovare mai una voce».