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Il centesimo compleanno del Museo Egizio di Torino si festeggia con Jeremy Irons e con i direttori delle più grandi collezioni del mondo

di Angiola Codacci-Pisanelli   12 marzo 2024

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Un documentario spettacolare racconta un secolo di vita dell'istituzione piemontese. E i suoi tesori che raccontano dei, faraoni e gente comune. Dalla newsletter dell'Espresso sulla galassia culturale araboislamica

Il Museo Egizio di Torino quest’anno compie cent’anni, e li festeggia in grande. Ha invitato Jeremy Irons a prestare volto e voce al lungo documentario “Uomini e dei. Le meraviglie del Museo Egizio”: un film presentato in anteprima alla 41esima edizione del Torino Film Festival, da vedere in sala per due giorni (martedì 12 e mercoledì 13 marzo per Nexodigital) e tra breve anche in televisione. 

 

Al volto dell’attore si alternano quello dei curatori delle diverse parti del museo. E quelli di direttori e direttrici dei musei egizi più importanti al mondo, da Friedrike Seyfried di Berlino a Sabah Abder Razik Saddik del Museo del Cairo. Il filmato – scritto da Matteo Moneta, regia di Michele Mally, musica di Remo Anzovino – è una grande festa a cui sono invitati non solo i responsabili delle grandi collezioni d’Egitto e d’Europa ma anche i tesori più preziosi che custodiscono: come la bellissima Nefertiti, che si trova a Berlino, e il tesoro del suo figliastro Tutankhamon, conservato integralmente al Cairo. Il risultato è un'introduzione al museo torinese ma anche un approfondimento dell'intera cultura egizia.

 

Tra tanti capolavori – le statue colossali di Ramses o la danzatrice contorsionista immortalata su un piccolo ostrakon – spicca il volto dell'architetto Kha come ce lo restituisce il suo sarcofago, protagonista di uno dei tesori più preziosi del museo di Torino: la tomba di Kha e Merit, una tomba inviolata scoperta nel 1906 da Ernesto Schiaparelli e trasportata interamente a Torino. Ogni spoliazione era legale per le leggi dell’epoca: anche le enormi collezioni di capolavori raccolte nell'Ottocento da Beniamino Drovetti, trasportate in Italia e vendute la prima ai Savoia, la seconda ai francesi (è il cuore della collezione egizia del Louvre).

 

Porta a quel periodo anche la mostra “Viaggi a Oriente. Fotografia, disegno, racconto” a cura di Arturo Carlo Quintavalle appena chiusa all’Ape Parma Museo (ma da sfogliare nel volume Skira dallo stesso titolo e autore, che l’ha ispirata). Dove si vedono la monumentale “Description de l’Egypte” che accompagnò la campagna napoleonica, le litografie di Gregory David Roberts, le fotografie di Maxime Du Camp, compagno di Gustave Flaubert nel viaggio in Oriente. Un’antologia di immagini dell’Egitto visto attraverso gli occhi ammirati di occidentali che sicuramente si erano preparati al viaggio anche leggendo la prima edizione francese delle “Mille e una notte”, uscita a Parigi nel 1704.  

 

È anche questo un modo per ricostruire il capitolo doloroso delle spoliazioni dei tesori dai Paesi dove sono stati trovati. Un tema a cui tutti i musei oggi sono giustamente sensibili. Non solo è importante esporre solo oggetti senza macchia, ma anche offrire un risarcimento simbolico alla cultura di origine. Per questo a Torino da qualche anno le etichette che presentano i reperti esposti sono scritte anche in arabo, la lingua dell'Egitto di oggi. A ricordo di un legame con la cultura egizia e il Mediterraneo che nel corso dei millenni è passato attraverso varie lingue e varie scritture: i geroglifici che vediamo negli obelischi di tante piazze romane, il copto, una delle più antiche lingue cristiane, e il demotico, versione "corsiva" dei geroglifici che somiglia lontanamente alle lettere della scrittura araba.