Film
Ombre pesanti tra madri e figlie: così il cinema interroga il corpo
Due film, uno francese l’altro tunisino, indagano la complessità dei legami familiari. Qualcosa che le donne fanno decisamente meglio degli uomini
C’è qualcosa che le donne fanno molto meglio degli uomini, al cinema. Interrogare il corpo. Mettere in scena la fisicità dei legami familiari. Decostruire i mille nodi invisibili e dolorosi nascosti in ciò che i nostri genitori ci trasmettono, anche loro malgrado, e ci condizionano per una vita intera. Il cinema recente trabocca di esempi di questo tipo, ma il bello è che questo lavoro sull’eredità famigliare genera sempre nuove forme. Come se per andare avanti il cinema dovesse necessariamente lavorare su questa frontiera invalicabile e oggi sempre più evanescente. Il corpo, appunto.
Ce lo ricorda il perturbante “Little Girl Blue” di Mona Achache, in anteprima questi giorni nei “Rendez-vous” col cinema francese curati da Vanessa Tonnini, in corso a Roma e poi a Bologna, Torino, Milano, Firenze, Napoli, Palermo. Finzione, documentario, psicoterapia per interposta persona, lotta coi fantasmi (e uno di questi fantasmi si chiama Jean Genet), resa dei conti postuma con una generazione gloriosa ma gravata da ombre mai chiarite? Tutto questo e molto altro.
Quando nel 2016 la madre della regista, la scrittrice Carole Achache, si uccide, Mona trova infatti una specie di tesoro maledetto disseminato in computer e scatoloni. Foto, lettere, agende, ma anche interviste e registrazioni vocali accumulate da Carole per una vita intera. Una vita difficile, segnata dal rapporto con un’altra madre a sua volta scrittrice, Monique Lange, redattrice da Gallimard, amica e confidente di molti grandi scrittori dell’epoca, da Camus alla Duras, da Faulkner a Genet, appunto, e a Juan Goytisolo, che benché omosessuale sarà anche il suo secondo marito.
Aprire quegli scatoloni, ascoltare quelle voci, significa scoperchiare il vaso di Pandora. Ma anche, spiega Mona Achache, «scovare le origini della violenza che mia madre esercitava contro se stessa e gli altri. Cosa c’era dietro quei tabù, quei silenzi, quelle ambivalenze? Perché diceva di odiare Genet, che troneggiava in un ritratto a casa della nonna come fosse uno di famiglia, ma anche di dovergli la propria formazione? Le registrazioni in cui indagava su se stessa conversando con i sopravvissuti della sua infanzia mi hanno convinto che quella storia andava finalmente sviscerata. Anche perché quella che credevo una nevrosi familiare era invece una nevrosi collettiva, un fatto politico e culturale. Nel 2017, un anno dopo il suicidio di mia madre, era esploso il MeToo. La battaglia non riguardava solo noi».
Restava un problema: come garantire “il passaggio dalla dimensione intima a quella universale?”. Ed ecco l’idea: sollecitando una delle più camaleontiche attrici francesi, Marion Cotillard (ricordate la sua Edith Piaf?), a “diventare” Carole. Letteralmente. Come nella scena memorabile che vede Marion svestirsi mentre la regista le tende gli abiti, i gioielli, le scarpe, i documenti, perfino il profumo di sua madre. Più una parrucca e un paio di lenti a contatto scure. Il resto lo fa il talento dell’interprete, che ora imita alla perfezione la voce della scrittrice (ma ogni tanto si confonde, ricordandoci brechtianamente che è pur sempre un’attrice), ora parla perfettamente in sync con la vera voce di Carole, registrata.
L’effetto è a dir poco inquietante. Almeno quanto quello delle rivelazioni su Genet, cui Carole, ragazzina, viene sostanzialmente data in pasto da sua madre Monique Lange. Generando una lunga storia di abusi (terribile il ricordo dell’estate a New York, con Carole spinta dallo scrittore a prostituirsi per “liberarsi”). E soprattutto destinati a riprodursi sul corpo di Mona, la regista, violentata da adolescente durante un’estate in Marocco dal giovane arabo che è l’amante e il servo di Goytisolo, in un gesto che sa di rappresaglia e di barbaro risarcimento. Ci voleva davvero coraggio ad affrontare tutto questo in un film, apparendo accanto a una delle più famose attrici francesi. Che non solo “diventa” Carole, quasi resuscitandola. Ma completa e celebra la sua storia, facendole dire ciò che in vita nessuno aveva voluto ascoltare. Con l’effetto, solo apparentemente paradossale, di raggiungere il massimo della verità attraverso il massimo di finzione.
Come del resto accade in un altro lavoro che svela la realtà con le armi della messa in scena, a giugno al Biografilm di Bologna e poi in sala: “Les filles d’Olfa (Four Daughters)” della tunisina Kaouther Ben Hania, già candidato all’Oscar per il documentario. Anche qui le maschere cadono e il non detto trova voce grazie alla presenza di tre attrici chiamate ad interpretare madre e figlie, accanto a loro sullo schermo. «In fondo è un finto documentario su un film che non si farà mai», spiega la regista. Le due figlie maggiori di Olfa sono infatti cadute nelle spire del radicalismo islamico e la madre, donna del popolo, è diventata una specie di star ipermediatizzata.
Come restituirle verità e complessità? Ovvero, come estrarre dalla storia di Olfa e delle sue figlie tutto ciò che contiene, anche qui in termini di discendenza, trasmissione involontaria di traumi, paure, pregiudizi? Emergono ombre pesanti e talvolta perfino comiche nella loro violenza (la prima notte di nozze Olfa si procura la prova della perduta verginità pestando a sangue il marito!). Tutto grazie al confronto con queste attrici, modello ideale che fa emergere le parti meno idealizzabili del proprio vissuto. È vero che i grandi documentari non lasciano mai il cinema come l’hanno trovato.