Sulla facciata della sede del partito filocurdo Dem di Istanbul campeggia un enorme poster in bianco e nero con il volto sorridente di Sirrı Sureyya Onder, il deputato scomparso il mese scorso per un attacco di cuore. «Addio, fratello: ti promettiamo che la grande pace arriverà in questo Paese», dice un messaggio commemorativo. Figura carismatica e irriverente, politico ma anche artista e regista, Onder era diventato un simbolo della lotta del popolo curdo per la pace e la democrazia. Il suo funerale, a inizio maggio, si è trasformato in una vera e propria manifestazione di massa, con decine di migliaia di persone scese in strada per rendergli l’ultimo omaggio.
Onder era uno dei membri della delegazione di Imrali, così chiamata dal nome dell’isola-prigione nel Mar di Marmara dove, dal 1999, è detenuto il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), Abdullah Öcalan. Da mesi, la delegazione è impegnata nelle trattative che hanno portato alla dichiarazione ormai divenuta storica del Pkk del 12 maggio, quando il gruppo – considerato terroristico dalla Turchia e altri governi suoi alleati – ha annunciato la sua dissoluzione dopo quattro decenni di conflitto armato. All’interno della sede del partito, il lavoro continua senza sosta. «Le decisioni annunciate il 12 maggio non segnano solo la trasformazione di un’organizzazione armata, ma rappresentano un momento storico, destinato a cambiare il destino dell’intera regione», afferma in conferenza stampa Tuncer Bakirhan, copresidente del partito e membro della delegazione di Imrali, all’indomani di una serie di incontri con esponenti di altri partiti turchi, volti a esplorare la possibilità di istituire una commissione parlamentare che possa monitorare e accompagnare il processo.
«È significativo che la proposta di istituire una commissione parlamentare sia stata accolta positivamente dai partiti politici», afferma a L’Espresso Ceylan Akca Cupolo, deputata eletta a Diyarbakir. Rispetto all’ultimo processo di pace del 2013-2015, poi fallito, l’attuale fase negoziale appare più inclusiva. «Sin dall’inizio dei colloqui con Öcalan, tutti i partiti hanno convenuto che fosse giunto il momento di affrontare e risolvere questa questione», aggiunge. «Sotto questo aspetto, il processo in corso è diverso dal precedente: coinvolge una gamma più ampia di attori politici». Akca Cupolo fa riferimento anche all’apertura inaspettata arrivata nell’autunno scorso da parte di Devlet Bahceli, leader dell’estrema destra nazionalista e alleato cruciale del presidente Erdogan. È stato lui – da sempre considerato ostile alla causa curda – a lanciare la prima proposta ufficiale per avviare un dialogo con il movimento curdo. Dopo il passo significativo compiuto dal Pkk con l’annuncio della fine della lotta armata – un processo che, per sua natura, non potrà essere immediato – ora la prossima mossa spetta al governo. Tuttavia, le trattative procedono a porte chiuse, con poche informazioni disponibili al di fuori delle dichiarazioni di alcuni membri della delegazione e di ufficiali di governo.
Secondo quanto affermato dalla copresidente del Dem Tulay Hatimogulları, ci sono misure che potrebbero essere adottate rapidamente per dare concretezza al processo. Tra queste, il rilascio dei prigionieri politici affetti da gravi patologie, l’attuazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, il reintegro degli accademici licenziati e perseguitati, e la rimozione dei commissari straordinari nominati dal governo in sostituzione dei sindaci eletti nelle città a maggioranza curda.
«La Turchia deve riconoscere la realtà sociale del Paese, fatta di pluralità linguistica, culturale e religiosa, e procedere di conseguenza con riforme costituzionali e legali», dice a L’Espresso Abdullah Demirbas, ex sindaco del distretto centrale di Sur, a Diyarbakir, oggi in esilio in un Paese europeo che preferisce non nominare. «Occorre eliminare gli ostacoli all’istruzione nella lingua madre e consentire l’uso di idiomi diversi dal turco anche nella sfera pubblica», aggiunge, esprimendo una delle richieste fondamentali dell’opinione pubblica curda. Demirbas fu destituito due volte, nel 2007 e nel 2012, per aver promosso l’uso del curdo nelle istituzioni municipali. In seguito fu imputato nel maxi-processo Kck, che ha coinvolto centinaia di esponenti curdi accusati di legami con l’organizzazione, ritenuta vicina al Pkk.
Il Pkk ha ribadito la richiesta di allentare le condizioni di detenzione di Öcalan, indicandolo come “principale negoziatore” in futuri colloqui. In una recente dichiarazione, un portavoce ha denunciato l’assenza di garanzie da parte di Ankara e chiesto la reintegrazione dei membri del Pkk nella società turca. Secondo Mohammed Salih, analista presso il Foreign Policy Research Institute (Fpri) ed esperto di questioni curde, l’annuncio del Pkk rappresenta «un enorme atto di fede» da parte del gruppo, da anni basato sulle montagne di Qandil in Iraq. «Il Pkk è da tempo in stallo strategico», osserva Salih. «Ha ottenuto tutto ciò che poteva militarmente, e oggi non rappresenta una minaccia immediata per la Turchia». Ma Ankara continua a muoversi su un doppio binario: mentre porta avanti i negoziati avviati lo scorso ottobre, prosegue le operazioni militari contro il Pkk nel Kurdistan iracheno. Sul fronte interno, negli ultimi mesi il governo ha intensificato la repressione, rimuovendo sindaci del partito Dem, incarcerando giornalisti e colpendo esponenti dell’opposizione.
Sono in tanti poi a sottolineare che le trattative in corso potrebbero rivelarsi vantaggiose per Erdogan, poiché una delle richieste del movimento curdo riguarda la modifica della definizione di cittadinanza nella Costituzione. Erdogan mira a intervenire sulla Carta per estendere il suo mandato, ed essere visto come il leader che ha “risolto” la questione curda rafforzerebbe la sua immagine. «La Costituzione turca è un mosaico di emendamenti accumulati nel tempo. Il cambiamento è inevitabile», afferma Akca Cupolo. «È un dibattito che dobbiamo affrontare insieme, senza imporre linee rosse».
Mentre Ankara si confronta con l’ipotesi di una nuova fase politica interna, si muovono scenari paralleli nel resto della regione. Il 10 marzo, in Siria, è stato siglato uno storico accordo tra il governo di Damasco e le Forze Democratiche Siriane (Sdf), a guida curda. In base all’intesa, Damasco ha accettato di riconoscere l’identità curda e i suoi diritti costituzionali: una svolta nella storia della Siria contemporanea. L’accordo prevede anche il reintegro delle forze curde all’interno delle strutture militari e di sicurezza, in cambio della restituzione del controllo statale su infrastrutture come aeroporti e giacimenti petroliferi nel nord-est del Paese. «I curdi non chiedono diritti solo in Turchia, ma anche in Iraq, Iran e Siria. La questione curda è internazionale», afferma Akca Cupolo, sottolineando che il processo in corso non può essere visto come un semplice baratto politico. «Non è “voi deponete le armi e noi vi daremo qualcosa”. È un’opportunità per trasformare la società intera». Negli ultimi dieci anni, osserva, in Turchia si è verificato un preoccupante arretramento dei diritti. «Ora abbiamo una grande occasione per affrontare queste questioni e costruire un futuro più democratico per tutti».