Chiara Poggi aveva una relazione con un altro uomo di Garlasco? Se lo chiedono “Le Iene”, annunciando una testimonianza ovviamente esclusiva, come se la risposta fosse importante. Eppure in questi giorni, mesi, anni, a un certo punto sembra proprio prendere il peso che non merita, quella vicenda che sembrava chiusa poi aperta poi richiusa e ora a dir poco spalancata e che occupa lo spazio e il tempo con un imbarazzante tormentone: per la prima volta. L’arrivare prima, a prescindere, il testimone che non ha mai parlato, il reperto mai analizzato, il telefono mai aperto, il messaggio mai letto prima, la dichiarazione mai raccolta al punto che viene da chiedersi quanti mai possano essere i nuovi testimoni di un crimine, nascosti chissà dove che decidono di risbucare fuori come un farmaco a lento rilascio.
In principio fu il gossip
E tutto diventa una gara, sulla cui pista si fa fatica a volte a ricordare che hanno corso degli imputati, dei condannati e soprattutto una ragazza senza vita. L’attenzione spasmodica che riprende vita e luce e perché no persino ombra sull’omicidio del 2007, a cui viene riservato ogni fibra di attenzione mediatica comincia a fare una certa impressione, quasi quanto la macchia sul muro, i capelli nel lavandino e ogni stramaledetto dettaglio che spunta qui e ora e non prima. In principio fu il gossip a occupare ogni senso incompiuto dell’attenzione. Poi all’improvviso, probabilmente per mancanza di materia prima ovvero di personaggi all’altezza delle altezze (reali), l’odore del crimine si è mescolato sui fornelli delle case italiche, e seduti a tavola, come ogni famiglia che si rispetti, si ripercorre la giornata e l’omicidio del momento.
Delitto e castigo
Eppure questo gusto a tratti morboso viene anch’esso da lontano. In una ricerca dell’osservatorio di Pavia che analizzava tre mesi di programmazione delle sette principali emittenti nazionali, il tempo di attenzione dedicato ai fatti di cronaca e ai relativi commenti o dibattiti in studio fosse pari a un totale complessivo di 287 ore, 3 ore al giorno in media. Ma, e c’è un ma, era il 2014. Ieri come oggi, il pubblico chiedeva di abbeverarsi al grand guignol della cronaca nera con una strana bramosia di verità. Un desiderio di stringere tra le mani il colpevole, sentire echeggiare almeno dal piccolo schermo una parvenza di giustizia giusta. Perché non c’è delitto senza castigo, sembra ripetersi ogni giorno lo spettatore che saltella da un plastico rispolverato della villetta di Garlasco ai microfoni del Tg1, sbattuti in faccia ai genitori di un assassino per sapere se hanno già chiesto perdono ai genitori della vittima. E tutto si confonde, dal momento in cui la ricerca di una verità si mescola al nulla dell’ordinario palinsesto, mentre una qualunque Myrta Merlino conclude la sua permanenza a “Pomeriggio 5” annunciando in sequenza «l’immagine che nessuno vi ha mostrato dell’impronta della mano di Marco Poggi» e il servizio “Spiaggia e mare fanno rima con cantare”.

Milo Infante
«A volte vedi gente che racconta sofferenze terribili con la stessa maschera con cui poi affronta il tema del peeling. E questo mi fa orrore, perché capisci che in realtà non gliene frega niente. Il racconto televisivo deve puntare ad aggiungere notizie togliendo tutto quello che può urtare la sensibilità di chi già soffre». A parlare è Milo Infante, un giornalista nato col taccuino in mano e cresciuto a cronaca nera e televisione, che con il suo “Ore 14” tiene stretto ogni giorno un milione di spettatori su Rai Due mentre si prepara al debutto in prima serata. Il suo è un pubblico fedele, capace di riconoscere un’arma automatica da una semi automatica e che dal processo tv subisce un fascino inusitato.
«Attenzione però, non è la televisione che riapre le indagini, è la procura. Non possiamo credere che un giudice si faccia condizionare da una trasmissione. Il processo mediatico è una semplificazione che fa comodo solo agli addetti ai lavori, agli avvocati che possono sbandierare il “clima avvelenato”. Quello che giornalisticamente facciamo è la guardia al potere giudiziario, come quando pretendi che un muratore tiri su un muro dritto. Invece nel Paese il muro può essere storto e pazienza, se ci riesce bene, se non ci riesce peggio per te. E questo non è un segnale da Paese civile. Oggi la gente ha un disperato bisogno di vedere che a fronte di un delitto o di un reato c'è una giusta punizione».
Certo sono tempi in cui si passa dal virologo al criminologo, senza soluzione di continuità perché a riempire un intero palinsesto bisogna imparare a raschiare il barile. E così si gira il coltello, le intercettazioni, il prete, il santuario, il romeno. «Cosa c’entrano con l’omicidio di Chiara Poggi? Forse niente», ci si chiede a “Quarta Repubblica”. Ma intanto parliamone, in attesa della nuova supposizione.
«C’è sempre il pericolo che l’infodemia possa risvegliare dei mostri, l’ospite a caso, il conduttore inadeguato che resta davanti alla telecamera come un coniglio abbagliato dai fari. Però questo è il lato oscuro – ribatte Infante – Il lato buono è che ogni tanto le indagini giornalistiche ci prendono. E poi bisogna sempre chiedersi perché. Il chi, il come, non bastano. Abbiamo l’opportunità di chiederci sempre perché è stata uccisa una donna, e ricordare che dietro un uomo violento c'erano denunce, vicini che hanno fatto finta di niente, servizi sociali inadeguati, a volte forze di polizia inadeguate. È questo il nostro dovere se vogliamo che i nostri programmi abbiano davvero un senso».