In un'Argentina in cui ancora non si può liberamente interrompere una gravidanza e in un’Italia in cui parlarne è tabù, le registe Valeria Ciceri e Marina Rota traducono in immagini il tentativo di «superare un evento traumatico». Voci ed esperienze di donne diverse alla ricerca del modo giusto per raccontare, per raccontarsi

Forse è un caso ma in Argentina molte case in cui si pratica l’aborto clandestino sono gialle. O forse, lo erano. L’interruzione volontaria di gravidanza è diventata legale il 30 dicembre 2020, dopo anni di lotta degli «assassini dei fazzoletti verdi», come li ha definiti il presidente Javier Milei. Dalla sua elezione, il leader di La Libertad Avanza ha minacciato più volte di revocare il riconoscimento di questo diritto, definendolo «un omicidio aggravato dal legame» tra madre e figlio.

 

Prima che l’aborto venisse legalizzato, Valeria Ciceri e Marina Rota si sono domandate: «Come si rappresenta un’esperienza tanto intima?». Questo il mantra che guida il viaggio italo-argentino messo su pellicola dalle due registe. Due amiche, due colleghe, due donne accomunate da un vissuto simile, ma che non riescono a raccontare. Quest’incapacità la percepiscono come un’onta nel loro curriculum da femministe. Un argomento in cui la difficoltà di comunicare con l’altra, nel tempo si trasforma in un terreno comune per costruire qualcosa insieme. Da qui è nato nel 2021 il documentario Esa casa amarilla che, dopo aver girato un po' le sale del mondo, è stato proiettato anche durante il 39esimo Torino Film Festival e ora nell'ambito della rassegna romana Solo di martedì

 

«Tutto è iniziato quando, nell’ambito della nostra amicizia - raccontano le due - ci siamo ritrovate incapaci di parlare dei rispettivi aborti. Per reagire a questo silenzio abbiamo iniziato a registrarci reciprocamente e, in seguito, a rivederci parlando di un evento che per noi era ancora traumatico». Un cammino di vita, poi affidato alla telecamera, che porta Valeria e Marina a confrontarsi e raccontarsi prima nella cucina dell'appartamento che condividevano, poi davanti all'obiettivo. Ancora e ancora. Alla ricerca del modo giusto di farlo. Un po' per tentativi «questo percorso ci ha guidate verso una domanda: può il cinema essere uno strumento per superare un trauma? Da qui è nato l’incontro con altre donne e la possibilità di documentare storie e vissuti diversi tra loro. Il film si è allora trasformato in un percorso, in doppia prima persona, sull’intimità e la sua possibile messa in scena». 

 

Ci sono le altre donne e ci sono loro due, che fanno da collante. Appoggiata sui sedili posteriori dell'auto, una telecamera riprende i luoghi in cui hanno vissuto durante gli studi di cinema a Buenos Aires. E in questo viaggio alla ricerca del modo giusto, se ne esiste uno, per raccontarsi e raccontare ci sono delle tappe, fatte di luoghi fisici, immaginari e testimonianze. «Non ricordo più dove fosse quella clinica, nemmeno la fermata a cui sono scesa. Ma ricordo che vicino c’era un Kentucky perché appena uscita ho mangiato un pezzo di pizza». «Ero da sola, non poteva entrare nessun altro». «Ho venduto tutto il mio oro per pagare il primo aborto e comunque i soldi quasi non bastavano. Il secondo è costato ancora di più». Questi alcuni estratti dei racconti collezionati dalle registe. La maggior parte sono lacunosi, quasi a fare da scudo a un ricordo doloroso. 

 

C'è chi ha abortito tre volte, chi estremamente giovane, altre invece ricordano nitidamente il senso di solitudine e abbandono. Per colmare le differenze tra tutte quelle storie e i loro silenzi, le registe decidono di affidarsi a qualcosa di altro: l’immaginazione. «Uno strumento - spiegano Marina e Valeria - che ha aperto le porte all’intimità». Ecco che negli ultimi minuti del lungometraggio una donna ricostruisce con parole e gesti il luogo in cui ha abortito. Dai ricordi confusi dall'anestesia nasce il disegno di una mappa. «Lì c’è il primo ambulatorio, in mezzo il bagno e poi c’è il secondo ambulatorio dove facevano le operazioni e poi non sicura. Mi sono risvegliata su una poltrona». E così partendo per un altro viaggio immaginifico, le due amiche si mettono in macchina e vagano per gli isolati di Buenos Aires. «Una qualsiasi di quelle case incrociate per strada poteva essere un luogo in cui si praticava l'aborto clandestino». 

 

Un pellegrinare che è comune a tante storie di aborto. Anche in Italia è un continuo spostarsi. Nonostante l’interruzione di gravidanza volontaria sia legale da 46 anni. Ne è un esempio l’esperienza diretta di Valeria Ciceri, raccontata dalla pellicola nell'intimità della cucina della mamma. «La prima volta che sono andata ad abortire mi sono ritrovata in un consultorio cattolico. Avevo 16 anni, ero stupida». Un'altra ragazza invece per accompagnare l'amica è finita in una clinica in Svizzera, in totale segreto. «Tre giorni al lago tra amiche». 

 

Quella dell’aborto sicuro in Italia è una geografia che l’associazione transfemminista Obiezione respinta ha provato a disegnare. E lo fa quotidianamente. Attraverso le segnalazioni degli utenti è stata creata una mappa interattiva in cui trovare servizi (come farmacie, consultori e ospedali) e le relative valutazioni da parte di chi c’è stato. Un modo per tracciare gli obiettori - di cui non si ha ancora una lista per questioni di privacy - e suggerire luoghi considerati sicuri.