Intervista

Ben Smith: «I social ormai sono il luogo in cui le persone combattono lotte settarie in favore della loro tribù»

di Carlo Crosato   23 maggio 2024

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La comunicazione tecnologica ha ridisegnato il modo in cuisi raccontano i fatti. Ma, anziché contribuire a una società più giusta, amplifica cospirazioni e populismi. Con due parole d’ordine: traffico e viralità. Parla il fondatore di BuzzFeed News

Nessuna realtà è cambiata così profondamente negli ultimi decenni come il mondo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Un mondo capace di maturare e prendere forme sempre nuove, mutando l’habitat umano e trasformandolo in un ambiente vitale fatto di connessioni e comunicazione. Tutto è iniziato, certamente, con la creazione di internet; ma cruciale è stata la nascita del cosiddetto web 2.0, in cui siamo diventati assieme fruitori e produttori di messaggi potenzialmente diretti a tutto il mondo. Un processo avviato con la comparsa dei primi blog e dei primi siti d’informazione online, che hanno letteralmente cambiato il modo di costruire le notizie, raccontare la storia del mondo, filtrare le informazioni e costruire conoscenza. Oggi il dibattito pubblico e politico si è trasferito in massa nei social network, obbedendo alle leggi di quell’ambiente algoritmico, fatto di consenso polarizzato, coinvolgimento emotivo, influencer e follower, fra cui non si comprende più se a dettare la linea siano i primi o i seguaci con i loro gusti da assecondare.

 

Parole d’ordine sono traffico e viralità, in una china avviata a cavallo fra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, come scrive nel suo libro “Traffic” Ben Smith, cofondatore e caporedattore di Semafor, già editorialista per il New York Times e, prima, fondatore di BuzzFeed News e promotore negli anni di numerosi blog politici. Smith ricostruisce con piglio romanzato e avvincente la rocambolesca nascita dei primissimi blog e giornali online, fra ricerca spasmodica di clic e profitto e la forse velleitaria speranza di mobilitare il pubblico su questioni cruciali per la vita collettiva. Il libro di Smith è prezioso perché evidenzia gli sviluppi odierni di questo processo, in cui al dogma del traffico di massa si è sostituito il settarismo e la frammentazione; e in cui le belle speranze di progresso sono messe in ombra da certa aggressiva retorica populista di destra.

 

Si dice spesso che uno strumento è qualcosa di neutro e che il suo valore dipende da come viene utilizzato. La comunicazione digitale ha rivoluzionato il mondo, ridisegnando il modo in cui si ricostruiscono gli eventi, si fa politica e si creano relazioni personali.
«Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono essere formalmente neutrali, ma i social media hanno avuto un impatto politico molto specifico. Hanno corroso il potere istituzionale, rivelando tutte le crepe delle istituzioni esistenti e amplificando le narrazioni populiste sulle cospirazioni delle élite. Per altro, le “metriche di coinvolgimento” (engagement metrics) sviluppate dalle compagnie di social media hanno favorito un particolare tipo di politico: il populista, che prima cavalca discorsi controversi o offensivi per rappresentare se stesso come un outsider, e poi beneficia del “coinvolgimento” che ha prodotto sui social media».

 

La copertina del libro "Traffic" (edito da Altrecose)di Ben Smith

 

Nel 2024 ci saranno molte elezioni politiche in tutto il mondo. Negli Stati Uniti si voterà per il presidente. Chi sta vincendo in termini di occupazione dei nuovi media?
«Negli Stati Uniti, le attuali elezioni si sono un po’ allontanate dai nuovi media, in parte perché i candidati sono molto conosciuti. Donald Trump era un candidato perfetto per Facebook, perché le sue esternazioni hanno stimolato il coinvolgimento e quindi calamitato l’attenzione. Ma è fuori da Facebook e Twitter dal 2021, e la sua piattaforma, Truth, è stata un fallimento. Alcuni dei suoi sostenitori più estremisti, però, si organizzano online, e i social media hanno anche soffiato sul fuoco delle proteste su Gaza, che sembrano aiutarlo e danneggiare Joe Biden. Per parte sua, Biden non ha padronanza dei nuovi media, e infatti è stato eletto in parte perché aveva promesso di non twittare mai. E così, paradossalmente, entrambe le campagne spenderanno miliardi di dollari in pubblicità televisiva per raggiungere le poche persone anziane ancora indecise».

 

Il titolo del libro è emblematico: “Traffic”, la quantità di interazioni, la diffusione delle voci e l’attenzione che si può attirare. Il libro, osservando il nascente giornalismo digitale, descrive due tendenze: una è la ricerca del traffico, dei numeri, dei click e del profitto; l’altra è la promozione di cause e idee importanti nel dibattito pubblico. Tuttavia, senza traffico, ci si ritrova a predicare nel deserto; e però, per il traffico, le idee impegnate e complesse non funzionano perché richiedono sforzo e tempo. Questo porta a una contraddizione: il traffico è un mezzo così importante per la diffusione dei contenuti che diventa il vero fine, per il quale i contenuti vengono sacrificati.
«Questa è, in un certo senso, la storia del pericolo di diventare ciò che si può misurare. Naturalmente i giornalisti hanno sempre desiderato la diffusione delle loro parole e hanno sempre voluto che la gente leggesse il loro lavoro. Ma quando la tecnologia ha permesso loro di conoscere con dettagli senza precedenti chi e quanto li leggeva, hanno corso il rischio di trasformarsi semplicemente in uno specchio di ciò che i lettori volevano. Questo non è un problema nuovo per i media, ma le nuove metriche del traffico lo hanno intensificato».

 

È un problema che riguarda sia il giornalismo che la politica e la finanza.
«L’attuale fase dei nuovi media sta determinando questo spostamento dalle istituzioni agli individui, e così molti leader si sentono obbligati a essere influenti. Si vedono amministratori delegati che postano costantemente su LinkedIn, per esempio, per aumentare il loro profilo personale. C’è poi tutta una nuova generazione di figure mediatiche e politiche che comunicano direttamente con i loro fan e follower, ristrutturando radicalmente il dibattito pubblico».

 

Il dogma è la viralità. Sappiamo però come funziona un virus: si diffonde a spese dell’individuo che infetta. Abbiamo difese immunitarie?
«Nel migliore dei casi si è trattato di un fenomeno positivo: le persone hanno condiviso idee che ritenevano importanti o mobilitanti. Campagne come “It Gets Better” hanno permesso alle persone gay di prendere coscienza di sé e credo abbiano salvato delle vite. Ma nel peggiore dei casi la viralità, guidata dai più bassi istinti delle persone e dalle metriche tecniche di coinvolgimento, ha amplificato il lato più volgare delle persone. Credo però che, per riprendere la sua metafora, la società abbia iniziato a sviluppare anticorpi. Penso che molte persone siano diventate sospettose rispetto a ciò che viene loro presentato sui social media e stiano cominciando a risalire a fonti più affidabili. I giovani, nel frattempo, si sono fatti molto avveduti nella ricerca della provenienza delle informazioni prima di crederci. L’intelligenza artificiale intensificherà tutti questi dubbi diffusi: il rischio maggiore non sarà che le persone vengano ingannate, ma che smettano di fidarsi di qualsiasi cosa».

 

Joe Rogan, star dei podcast e commentatore televisivo americano

 

Il giornalismo digitale discusso nel libro plasma il dibattito pubblico filtrando le informazioni. Oggi, con i social network, il discorso politico si è letteralmente spostato online. Questo influisce sulla qualità della partecipazione democratica. Tutti sentono di avere qualcosa da dire e coloro che hanno cose veramente importanti da dire sono sopraffatti dal rumore. Si tratta di una partecipazione autentica?
«A volte lo è. I social media hanno dato voce a persone emarginate dalle conversazioni d’élite, e hanno portato un effettivo progresso, per esempio, quanto ai diritti delle donne sul posto di lavoro. Talvolta mi chiedo se George W. Bush sarebbe stato in grado di trascinare con tanto agio il popolo americano in Iraq se le voci e i video iracheni avessero fatto parte del dibattito. Più recentemente, però, i social media sono diventati un luogo in cui le persone combattono lotte settarie in favore della loro tribù, favorendo così la polarizzazione e il tribalismo. Lo si vede nelle battaglie, per esempio, su grandi questioni sociali come la razza e l’aborto. Un altro esempio sono le campagne per tacciare il figlio del presidente Biden, Hunter, di essere una mente del crimine globale. I social media non sono più un luogo in cui ci si persuade reciprocamente attraverso conversazioni aperte: sono diventati lo spazio dove radunare i propri sostenitori e combattere il nemico».

 

Il traffico di massa di cui parla il suo libro è stata una misura quantitativa, spesso confusa come misura della qualità. La quantità dipende soprattutto dalle emozioni reattive, che deflagrano, distruggendo il ragionamento. C’è spazio per il pensiero e la discussione sul web?
«Ho scritto il libro per rappresentare la fine di un’epoca, e credo che l’era del traffico di massa nei media sia finita. La nuova tendenza è la frammentazione in molti piccoli pubblici. Questo è particolarmente visibile nel podcasting dove, per esempio negli Stati Uniti, il più grande conduttore – Joe Rogan – controlla solo una quota del 5 per cento del mercato. Tutti gli altri sono ancora più piccoli. Quando vedete qualcuno in metropolitana con gli auricolari, non avete idea di cosa stia ascoltando. Lo stesso vale per il boom delle newsletter. È possibile leggere di argomenti specialistici, o riflessioni in merito a particolari prospettive politiche, in modo molto approfondito e nel confronto con persone solidali nel punto di vista o profondamente interessate a quel tema ristretto, che si tratti di politica o di cibo o di un’area geografica. Penso che questo possa essere salutare: molti di questi spazi sembrano prestarsi a un dialogo più sfumato e aperto, e non sono costantemente minacciati da avversari ostili che costringono a una posizione difensiva o a rimanere sommersi dalle opinioni più offensive».

 

Nel suo libro, lei descrive una colonizzazione dei nuovi media da parte della destra. Perché la destra sembra essere più abile nell’occupare i nuovi media? Perché i nuovi media sembrano così adatti alla retorica populista della destra?
«Alla base del populismo di destra c’è la promessa illusoria di un leader estraneo ai privilegi dell’élite. Il modo migliore per dimostrare di non far parte dell’élite è indurre questa ad attaccarti, specie se hai credenziali da élite, come la ricchezza o se sei di buona famiglia. Quindi, se dici qualcosa di sessista, razzista o falso, lascia che i media e il mainstream ti attacchi e di’ ai tuoi seguaci: “Vedete, io sono un vero outsider”. E questo ha l’ulteriore vantaggio di alimentare le metriche di coinvolgimento dei social media e di attirare l’attenzione su Facebook in particolare. Questo sta diventando progressivamente molto meno vero oggi rispetto a cinque anni fa, poiché Facebook è uscito dalla scena e X è molto meno rilevante. Si aprono nuovi scenari».

 

Un manifestante tiene un cartello durante una manifestazione del movimento Black Lives Matter a Vienna

 

Il modello relazionale è quello della rete, di cui siamo tutti nodi in costante comunicazione. Ci sono nodi che hanno più successo nel far circolare la comunicazione: gli influencer. Questo concetto, di origine sociologica, ora indica individui al centro dell’attenzione generale, il cui valore non sta in ciò che dicono, ma nella loro capacità di attirare reazioni. Tutto si riduce alla strategia di comunicazione, al marketing.
«Stiamo assistendo a un ampio spostamento del potere e della rilevanza dalle istituzioni agli individui, iniziato quasi 100 anni fa con il crollo del sistema degli studios hollywoodiani e l’ascesa della star del cinema, ma che è progredito in vari settori e che ora si sta davvero accentuando e consolidando. Lo si vede nel crollo della rilevanza dei partiti politici: ora il singolo candidato è molto più importante del gruppo politico di cui è parte. Lo si vede con l’importanza attribuita all’atleta fuoriclasse rispetto alla squadra sportiva. E lo si vede nei media e nel giornalismo, dove i lettori e gli spettatori sono molto più propensi a fidarsi di una persona specifica che di un marchio anonimo. Questo ha ovviamente caratteristiche positive e negative, ma credo che sia la realtà, e che le istituzioni che vogliono costruire la fiducia debbano prenderne atto».