Ho visto cose

Cento anni fa nasceva Mike Bongiorno, fenomenologia della nostra tv

di Beatrice Dondi   24 maggio 2024

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Mike Bongiorno

Le note pagine di Umberto Eco raccontano certo il presentatore, ma ancor più la proposta per il pubblico, di ieri e di oggi: il trionfo della banalità, l’incapacità di approfondimento, il disprezzo del congiuntivo. E rigorosamente senza allegria

Non gli era mai andata giù la “Fenomenologia” che scrisse Umberto Eco. L’everyman, l’uomo mediocre che parlava a un pubblico in grado di non sentirsi sopraffatto da una figura altra da sé, quella descrizione così minuziosa l’aveva mal digerita al punto che raccontò di aver pianto dopo una prima lettura. Eppure, l’importanza assodata di Mike Bongiorno, padre fondatore della televisione pubblica e artefice immoto di quella privata, passa esattamente dall’immarcescibile saggio di Umberto Eco. Che per raccontare quella figura così ingombrante per chiunque tenti ancora oggi di avvicinarsi a una telecamera, descrive chirurgicamente l’idea che la tv stessa si è fatta del pubblico a cui si rivolge, rendendo rende Mike il traino, il testimone che si passa a ogni corsa, a ogni giro di ruota. 

 

Entrato in quella scatola tinta dalla miracolosa ingenuità del Dopoguerra per intrattenere una massa reboante disposta a comprare quell’elettrodomestico solo per seguirlo il giovedì, Mike Bongiorno si impone dalla prima ora come un traghettatore del sentire comune: prende lo spettatore per mano, lo accompagna, lo accudisce e lo sgrida alla bisogna, percorrendo una strada lastricata di espressioni placide, che fanno subito famiglia: le «belle signorine», «la musica dei giovanotti» e poi «ehilà», «un bell’applauso» e «amici ascoltatori» diventano un segno distintivo, per seguirlo al primo suono senza il timore di perdersi. 

 

Con la stessa consapevolezza degli altri, che lo idolatravano come l’inimitabile più imitato della storia, Mike rischia tutto sul serio e passa dal pubblico al privato, pronto a ricostruire senza smontare niente. E nella televisione berlusconiana si trova a cavalcare senza scosse, al contrario di ogni altro protagonista della campagna acquisti perlopiù fallimentare (si pensi a Baudo e Carrà tornati mesti sui loro passi) diventando parte integrante del senso stesso di quella tv commerciale, in cui il prosciutto viene prima del programma e spesso prima del telespettatore. 

 

È un’Italia immobile che insiste a raccontarsi in una tv in cui a muoversi è solo lui, Michael Nicholas Salvatore Bongiorno da New York, la staffetta partigiana che beveva grappa scalando il Cervino, il re dei quiz che a ogni inciampo diventava icona. Così oggi, nel centenario della nascita, mentre fioccano flebili omaggi ridondanti, vale ancora una volta la pena di rileggere le righe di Eco su Mike Bongiorno a cui attribuiva il trionfo della banalità, l’incapacità di approfondimento, il disprezzo del congiuntivo, il totale disinteresse verso una crescita derivante dal confronto. Praticamente la televisione di oggi, ma senza allegria.

 

 

DA GUARDARE 
Solo Shonda Rhimes e il suo impero possono riuscire nell’ardua impresa di appassionare il pubblico a partire dal cambio di tonalità degli abiti. «Basta agrumati», dice Penelope alla modista in questa terza stagione di “Bridgerton” (Netflix). E da quel momento in poi ne succedono letteralmente di tutti i colori.

 

MA ANCHE NO
Non se ne abbia Piero Chiambretti, se ancora oggi si rimpiange la sua divisa di “Portalettere”. Perché a ogni sua nuova apparizione si spera, si guarda con fiducia e puntualmente si torna con le pive nel sacco. L’ultimo esempio è “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, ovvero un caos chiamato programma.