Intervista

Salman Rushdie: «Sono sopravvissuto all'attentato, è ora di raccontare la vita»

di Mattia Insolia   27 maggio 2024

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Lo scrittore Salman Rushdie

L’attacco subito al centro di “Coltello”, il nuovo saggio. Il ricordo di Paul Auster e Martin Amis. I rimpianti: “La storia che non ho ancora scritto? Romantica: una coppia, del vino, un lago davanti”

Ventisette secondi e quindici coltellate: «Sei tu, dunque. Eccoti qui», si ritrova a pensare Salman Rushdie, scrittore tra i più grandi al mondo, quando, assalito da un uomo in nero, è certo di esser in punto di morte. È il 12 agosto del 2022 e Rushdie parla al pubblico su un palco di New York. Dalla condanna a morte, emessa dall’allora ayatollah Khomeini - la colpa: avere scritto “I versi satanici”, ritenuto blasfemo per la fede islamica - sono passati trentatré anni. Eppure su quel palco Rushdie non ha dubbi: l’uomo che gli corre in contro e lo accoltella vuole ucciderlo per compiere la fatwa del 1989.

In “Coltello” (Mondadori) Rushdie racconta l’attentato alla sua vita, certo, ma racconta soprattutto quel che è venuto dopo: la rinascita, l’amore.

 

Anzitutto, condoglianze per la scomparsa di Paul Auster.
«Sapevamo da mesi sarebbe andata così, ma il dolore resta. È morto a casa sua, non voleva che succedesse in ospedale: hanno messo un letto nella sua libreria e se n’è andato circondato dai suoi libri, dalla sua famiglia».

 

È riuscito a vederlo nei suoi ultimi giorni?
«È morto di martedì. Sono andato a trovarlo la domenica prima e Don DeLillo, nostro grande amico comune, il lunedì: abbiamo avuto entrambi la sensazione che Paul avesse aspettato. Prima di morire voleva dirci addio».

 

In “Coltello” racconta del legame sia con Auster sia pure con Martin Amis, scomparso un anno fa. Leggendo non si avverte nostalgia, quanto un dolce senso di fine.
«Arriva un momento nella vita di ciascuno in cui alla morte si inizia a pensare, e pure con una certa frequenza. Certo, il mio è un caso particolare, essendomi avvicinato alla morte quant’è più possibile, ma mi rendo conto che è così pure per i coetanei che ho attorno - e sia Paul sia Martin alla morte pensavano. Tra l’altro, a giugno compirò settantasette anni, l’età che aveva mio padre quand’è scomparso. Ecco il senso di fine di cui parla».

 

Eravate soprattutto amici o scrittori?
«Non vedo perché operare questa distinzione. Credo che la nostra generazione sia stata molto talentuosa ma la scrittura non ci ha mai divisi, anzi: ci ha molto uniti. Pur non avendo avuto un progetto comune - come i surrealisti o i realisti magici - aver respirato gli stessi tempi ci ha tanto uniti. Picasso spesso andava a far visita a Braque per vedere a cosa stesse lavorando: ecco noi ci leggevamo a vicenda e con una grande attenzione, cercavamo d’imparare l’uno dall’altro. A unirci era la vocazione per la scrittura: volevamo scrivere e l’avremmo fatto anche se non ci avessero pagati».

 

Lo ricorda, il momento in cui questa vocazione l’ha sentita?
«Ero al college e di sicuro non pensavo che la mia vita sarebbe andata così. Scrivendo “I figli della mezzanotte” desideravo solo trovare un buon editore. Il Booker prize, le quaranta lingue in cui è stato tradotto, il successo globale non erano neanche possibilità».

 

Cosa crede di lasciarci con i suoi romanzi?
«Qualcosa che potete leggere».

 

Il libro che non ha ancora scritto?
«Avrei sempre voluto scrivere un romanzo sulla vita intima, su una coppia che, tranquilla, beve del vino all’ombra di un albero, davanti a un lago. Forse una storia d’amore romantica».

 

Prima di entrare in “Coltello”. Ci dà dei ricordi di Paul Auster e di Martin Amis a cui le piace tornare?
«Un ricordo legato a Paul cui sono affezionato ha a che fare con il modo in cui ci siamo conosciuti. Il mio esordio è un libro per l’infanzia - uscito pochi anni prima di “I figli della mezzanotte”. Libro che, per una coincidenza tanto assurda quanto meravigliosa, Daniel, il figlio di Paul - che, appunto, all’epoca era solo un bimbo - scelse in libreria, chiese ai genitori e lesse a casa, autonomamente. Finito il libro Daniel volle scrivermi una lettera: gli era piaciuto tanto e voleva dirlo all’autore, da fan. La scrisse di suo pugno, la firmò Daniel Auster e, alla fine, aggiunse: P.S. Papà dice ciao. Io e Paul ci mettemmo in contatto, quindi, e la prima volta che andai a New York ci incontrammo, allora nacque la nostra amicizia. Se penso a Martin invece mi tornano in testa le serate che organizzava in casa sua per giocare a poker. Eravamo un bel gruppetto di scrittori, artisti, filosofi e c’era una regola soltanto: dovevamo parlare di poker e basta. A quel tavolo, nella cucina di Martin, c’erano menti brillanti, ma non discutevamo di altro che di poker. Se qualcuno ci provava gli altri lo zittivano: gioca a poker!».

 

“Coltello” ha al centro un evento tragico e violento: il tentativo di ucciderla. Eppure nel romanzo di sentimenti negativi non ce ne sono.
«Quando ho iniziato a scrivere “Coltello” la domanda che mi ponevo era soltanto una - la stessa che mi faccio quando comincio un nuovo romanzo: cosa voglio raccontare? Avessi scritto dell’attacco avrei riempito dieci pagine e non aveva senso. Di cosa sto scrivendo?, mi chiedevo. No, non della morte, le coltellate, l’assalitore. No, io volevo raccontare la vita: ero in vita, nonostante tutto: ecco cosa valeva la pena di essere raccontato».

 

Della rabbia cosa dice?
«Non l’ho provata - non dico mai, però quasi mai. Anche quand’ero nel reparto di terapia intensiva, subito dopo l’attacco, anche quando ho dovuto affrontare la riabilitazione, nei mesi successivi: niente rabbia. Avevo troppo cui pensare. Soprattutto, ero impegnato a rimanere in vita. E poi la rabbia era propria della persona che mi ha accoltellato e se mi ci fossi aggrappato pure io sarei rimasto lì, incastrato in quel giorno, mentre io volevo andare avanti».

 

Sua moglie Eliza?
«Lei era una furia. Nel periodo trascorso in ospedale, i giorni subito successivi all’attacco, Eliza ha fatto tanti video: perlopiù riprendeva me, mi domandava come stessi, a cosa pensassi. Erano piccoli frammenti di quella nostra stramba quotidianità. Mesi dopo, tornati a casa, li abbiamo rivisti, quei video, e la cosa che mi ha colpito di più era la sua rabbia. La vedevo sul suo volto, era grande. Un giorno, eravamo ancora in ospedale, è uscita dalla mia camera e ha chiesto a uno dei medici come si arrivasse sul tetto: sentiva l’esigenza di urlare - come per liberarsi. L’hanno accompagnata lì, e ha strillato fino a sentirsi meglio».

 

Parlando di Eliza, quindi. È possibile che lei, e il suo amore, siano stati il contraltare, il bilanciamento all’odio che l’ha investita?
«Sì, certo che sì. Nel periodo che racconto mi trovavo nel punto più vulnerabile della mia vita, sia psicologicamente sia fisicamente. Aver avuto lei accanto a me, aver avuto qualcuno che prendesse il fardello di ciò che ci stava capitando e se ne facesse carico è stato fondamentale».

 

Ne è rimasto sorpreso?
«Solo dall’energia della sua costanza, dalla sua forza, di certo non dall’amore».

 

All’inizio di questa intervista mi ha detto che la storia che non ha ancora raccontato, e che vorrebbe scrivere, è una storia romantica, d’amore. Ma raccontando di lei ed Eliza - di come vi siete conosciuti, di alcuni momenti d’intimità - non crede di averlo già fatto?
«È sicuramente la storia d’amore più bella che abbia raccontato - questo è vero. Abbiamo una connessione mentale molto grande, pensiamo allo stesso modo, ridiamo per le stesse cose: è la migliore che abbia scritto perché nella realtà è una storia d’amore bellissima, la nostra».

 

Lei ed Eliza sedete all’ombra di un albero a bere vino, in questo libro?
«In qualche modo, sì».

 

Nel libro racconta anche la sua infanzia. Un episodio mi ha colpito molto, quello in cui legge Peter Pan con sua sorella.
«Fra tutti i ricordi d’infanzia è uno di quelli a cui sono più affezionato. La foto di noi due che leggiamo quel libro è incorniciata e appesa sia in casa mia sia in casa di mia sorella».

 

Chi l’ha scattata, questa foto?
«Mio padre».

 

Ecco, a proposito di lui: nel romanzo un po’ lo racconta.
«Era un alcolizzato, ma nostra madre ci ha protetti da lui, dai suoi eccessi d’ira e da bimbi non lo abbiamo patito troppo. Lo sentivamo urlare e sapevamo che in casa succedevano cose brutte, tristi, ma lei ci ha protetti. Beveva un Johnnie Walker a notte, incredibile - Mr. Walker, di fatto, viveva con noi».

 

Dice di non averlo patito troppo, ma da adolescente lo ha colpito al volto.
«Avevo vent’anni. Lui gridava contro mia madre, io gli sono andato addosso e l’ho colpito al volto, sì. Ero terrorizzato, temevo mi avrebbe picchiato, era un uomo piccolo ma forte, e invece no: si è girato e se n’è andato di casa».

 

Alla fine, però, avete fatto pace.
«È morto per un tumore molto aggressivo. All’epoca io vivevo in Inghilterra e lui in Pakistan, un amico di famiglia mi ha chiamato, sono salito sul primo aereo e l’ho raggiunto. È morto una settimana dopo e in quei giorni abbiamo parlato a lungo, curato tante ferite».

 

Dopo tutti questi anni e dopo tutti questi libri, cosa mi dice della sua apparizione nel film “Il diario di Bridget Jones”?
«Il mio lavoro migliore! La gente mi chiede ancora indicazioni per il bagno».