Attori bravissimi, tensione costante e colpi di scena inattesi. Dopo "Saint Omer" e Anatomia di una caduta" il nuovo film di Cédrik Khan, tratto da una storia vera, punta sul fascino delle inchieste affidate alla ricostruzione in tribunale

Primo assioma: i film giudiziari sono uno dei generi più difficili e insieme potenti che il cinema conosca. Secondo assioma: i più bei film giudiziari di questi anni vengono dalla Francia, forse il Paese europeo più sensibile ai temi delle minoranze e della giustizia. Prima “Saint Omer”, poi “Anatomia di una caduta”, ora l’incandescente “Il caso Goldman”, l’unico declinato al passato anche se i richiami al presente vibrano evidenti.

 

Siamo infatti nel 1975, Pierre Goldman, gauchiste, rapinatore, autore dal carcere di un libro di enorme successo che ne ha fatto l’idolo dell’intellighenzia post-68 (portentoso Arieh Worthalter, impossibile non pensare a Volonté), affronta il processo d’appello per la morte di due farmaciste uccise in una rapina.

 

Figlio di ebrei polacchi immigrati a Lione ed eroi della Resistenza, cresciuto nel culto della rivolta, Goldman ammette le rapine ma nega gli omicidi, contrari ai suoi principi. E lo fa togliendo spesso la parola al suo avvocato, altro figlio di ebrei polacchi ma di opposto carattere (Arthur Harari, già sceneggiatore di “Anatomia di una caduta”). Per accanirsi con argomenti temerari quanto spesso imparabili contro giudici, testimoni, polizia («Siete tutti razzisti, se passate al setaccio le mie idee non vedo perché dovremmo ignorare le vostre»).

 

Colori polverosi, ambientazione perfetta, niente musica e tantomeno flashback: tolto un breve prologo, tutto accade sotto i nostri occhi in un’aula stracolma e divisa. Dando vita a un crescendo irresistibile per la complessità - tragica - del personaggio e la sua capacità di allargare il dibattito ribaltando ogni parola in un capo d’accusa contro la società e le sue ingiustizie. Ma anche per la scintillante perfezione del cast, dai protagonisti all’ultimo testimone (nota d’onore per il padre dell’imputato in cui qualcuno forse riconoscerà Jerzy Radziwilowicz, già epocale “Uomo di marmo” per Andrzej Wajda). 

 

Non diremo come va a finire, il vero colpo di scena fra l’altro arriva dopo il verdetto. Per Pierre Goldman fine misteri mai, viene da dire. Solo una cosa purtroppo è certa. A film uscito, la compagna caraibica di Goldman, allora futura madre di suo figlio, ha denunciato le molte licenze della sceneggiatura, in primis l’averla fatta apparire tra i testimoni (in una delle scene più belle peraltro), cosa che in realtà non accadde, senza nemmeno interpellarla. I diritti della creazione sono sacri. Ma la Storia, e i suoi involontari protagonisti, hanno le loro ragioni.

 

IL CASO GOLDMAN di Cédric Kahn, Francia, 115’