Cultura
4 settembre, 2025Un'attrice leggendaria per Pietro Marcello. Un'assassina che ha perso la memoria per Leonardo Di Costanzo. Ecco due film che rimescolano le carte. Anche grazie a Valeria Bruni Tedeschi e Barbara Ronchi
Due film diversissimi, due registi al classico giro di boa. Alle ultime battute, Venezia affianca “Duse” di Pietro Marcello (classe 1976) e “Elisa” di Leonardo Di Costanzo (1958), due dei cinque titoli italiani in concorso. I film non potrebbero essere più diversi, per temi e linguaggio, ma hanno in comune un impianto produttivo più ambizioso del solito, cosa che segna anche la volontà (la necessità?) di adeguarsi a una tendenza quasi obbligatoria visti gli assetti del mercato contemporaneo.
“Elisa” è infatti una coproduzione con la Svizzera, anche per ragioni di storia e ambientazione, ed è dopo “Ariaferma” il secondo lavoro del regista con attori di grande nome, una portentosa Barbara Ronchi e un controllatissimo Roschdy Zem, anche se i temi sono quelli cari da sempre al regista di capolavori del nostro cinema indipendente come “L'intervallo” e “L'intrusa”: la libertà, dei personaggi come degli artisti potremmo dire; la giustizia (la giustizia riparativa in particolar modo); e la colpa, ovvero la consapevolezza della colpa e l'uso che di questa colpa possiamo fare, come singoli e come istituzioni.
“Duse” è una grande coproduzione italo-francese, protagonista una scatenata Valeria Bruni Tedeschi, che ripercorre gli ultimi anni di vita e di lavoro della grande attrice tra invenzione e biografia. Ed è grande, se non grandiosa, in tutto: scene, costumi, ambientazioni, irriverenza. Un'irriverenza che appartiene alla protagonista come al regista e suona a tratti un po' troppo sistematica per convincere fino in fondo. Come se una partitura fosse fatta solo di “forte” e “fortissimo”, vale per la regia come per la figura della Duse, dipinta come un concentrato di vitalismo da far invidia a D'Annunzio. Le scene col Vate, un perfetto Fausto Russo Alesi, affiancato da un segretario-tuttofare ironicamente incarnato da Giordano Bruno Guerri, attuale presidente del Vittoriale, sono per inciso fra le cose più belle del film.
Tra vita e teatro, fiaschi clamorosi e risse fra primattori, visite al Duce (che le offre un vitalizio) e quadretti familiari (la figlia fa di tutto per sottrarla all'arte e all'autodistruzione, naturalmente invano), gli ultimi anni della grande attrice scorrono insomma febbrili sullo sfondo di un'Italia colta alla fine della Prima guerra mondiale e poi oltre, col feretro del Milite Ignoto che attraversa il paese in lungo e in largo contornato da folle immense e cascate di fiori. Contrapponendo la generosità e il rigore delle immagini d'archivio, per giunta a colori (restauro e colorizzazione, di grande rigore, sono curati dallo stesso regista, come già in “Martin Eden”), alla libertà dell'invenzione, come Marcello ha sempre fatto. Ma con una insistenza un poco programmatica che sorprende e interroga forse meno che in passato.
Anche Di Costanzo, del resto, ci mette più tempo del solito a mettere a fuoco con forza il nodo centrale di “Elisa”, Che sta nel rapporto fra una assassina affetta da amnesia (Barbara Ronchi) e il terapeuta che tenta di farle tornare la memoria (Roschdy Zem). Per fare i conti con il delitto che ha commesso e con il difficile quadro familiare in cui è maturato. Un progetto così ambizioso, e doloroso, che il film gira un poco in tondo, sulle prime, per poi ripartire con slancio ed emozione autentici quando finalmente il piccolo inferno familiare descritto dalla paziente omicida prende corpo in una scena davvero folgorante. Anche se, o proprio perché, intravediamo tutto velocemente, in uno specchietto retrovisore. Metafora perfetta, e immagine memorabile, che a partire da quel momento spinge “Elisa” sempre più in alto. Il ricordo era lì, nascosto in quello specchietto puntato alle spalle di Elisa, minuscolo, quasi invisibile e insieme torturante, ossessivo. Così il film esce dal caso giudiziario, o da quello umano, per diventare una meditazione sul male, la colpa, la redenzione. Che non investe più solo la paziente e il suo delitto ma il suo terapeuta, le sue scelte, la sua missione. Insomma, a ben vedere, tutti noi.
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