È stato Nino in "C'è ancora domani", Il Freddo in “Romanzo criminale”, Tiberio ne “I soliti ignoti”. Ora pubblica il suo primo romanzo: viaggio nei libri fondamentali per i più giovani, da Kerouac e Bukowski. “Esploro i luoghi di confine”

«I personaggi? Sono delle ombre che sei chiamato ad animare per un periodo, poi però devono scivolare via». Non è uno che si affeziona ai ruoli Vinicio Marchioni. Nella sua casa romana non ci sono oggetti di scena, abiti, o altro «solo le locandine teatrali quelle sì, mi piace tenerle». Eppure i personaggi a cui ha dato vita in 25 anni di carriera sono difficili da dimenticare, dal Freddo della serie tv “Romanzo criminale” di Stefano Sollima a Nino, l’amore giovanile di Delia nel film campione d’incassi “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi. E poi tanti ruoli teatrali, certo, da Tiberio ne “I soliti ignoti”, di cui firmava anche la regia, a George in “Chi ha paura di Virginia Woolf” diretto da Antonio Latella. Qualcosa di simile, essere sedotti dalla forza di una personaggio, accade anche con il piccolo esercito di maschere romanesche, da Memmo a Sorcapelata, che anima il suo primo romanzo appena pubblicato da Rizzoli, “Tre notti”, il viaggio di un adolescente di nome Andrea alla scoperta di se stesso e di un padre forse mai conosciuto davvero.

 

«Ho sempre scritto moltissimo nella mia vita: diari, appunti, quaderni, e poi sceneggiature e drammaturgie», dice Marchioni: «Pensavo a questo romanzo da una decina di anni, ma ho sempre rimandato perché non mi sentivo pronto e poi perché, per fortuna, in questi ultimi dieci anni non mi sono fermato un attimo. Penso ci sia voluto un giusto tempo di maturazione e di consapevolezza, anche per trovare quel coraggio misto ad una certa dose di incoscienza».

 

Ne parla con un pizzico di emozione mentre si prende una pausa dal lavoro di questi giorni. È a Napoli, sul set del nuovo film di Antonio Capuano, “Hungry Bird”, in cui lui e Teresa Saponangelo sono una coppia di genitori alle prese con una battaglia legale per l’affidamento del figlio. «Sono onoratissimo di poter lavorare con un artista libero come Capuano, un vero grande maestro. L’incontro con lui è un’iniezione di cose sane, di onestà, di passione, di vitalità straordinaria. In “Hungry Bird” tutto viene raccontato dal punto di vista del figlio. D’altra parte i suoi film sono indagini sulla gioventù, sull’adolescenza, sui giovani».

 

Adolescente, dicevamo, è anche il protagonista di “Tre notti”, Andrea, 15 anni, che con Martina legge Dickinson, Baudelaire, Rimbaud, Saffo, Ferlinghetti, Kerouac, Bukowski... «Ho scelto i libri da citare basandomi sugli incontri della mia vita, non per forza avvenuti nell’adolescenza. Mi sono segretamente divertito a dare consigli, a quell’età sarebbe bellissimo leggere Kerouac. Il personaggio di Nerone, per esempio, è un po’ lo zio che io avrei voluto avere, l’amico di famiglia con il caratteraccio che però dà ottimi consigli di lettura». Ma l’infanzia di Marchioni, in fondo, non è così distante da quella di Andrea, entrambi cresciuti negli anni Novanta. «Conosco bene la campagna, provengo da una famiglia di contadini e di operai. Andrea è un alter ego di una parte della mia infanzia, quella periferia è un po’ la stessa dove sono cresciuto io, Fidene. Ma non volevo andare troppo sul biografico. Per me la periferia è un luogo di confine, alle porte della grande città, ma è anche un luogo di confine dell’anima, una frontiera».

 

Una scena dello spettacolo “Chi ha paura di Virginia Woolf” diretto da Antonio Latella

 

Ripensando agli incontri, importantissimi nella vita di ciascuno di noi, dice: «Io sono stato molto fortunato, forse il mio Nerone ce l’ho avuto. All’Istituto industriale ho incontrato il professor Averini che mi ha instradato: mi regalava dei libri, la sera invitava a casa me e un altro ragazzo e ci faceva leggere i libri di Orson Welles e di Dostoevskij, ci spiegava la storia mentre giocavamo a Risiko. È un incontro che mi ha aperto la mente. All’inizio non pensavo di fare l’attore, mi sono iscritto alla Facoltà di Lettere perché volevo scrivere, forse il giornalista o il drammaturgo, volevo raccontare storie. Poi, mentre studiavo Storia del teatro e del cinema mi sono chiesto nella pratica cosa significassero quei metodi di recitazione. E così ho trovato una piccola scuola di teatro, sono entrato con l’idea di fare uno stage e ci sono rimasto un trimestre e poi un altro ancora finché l’ho frequentata per tre anni, più la specializzazione di sei mesi in Drammaturgia antica e così ho iniziato a fare l’attore e  l’Università non l’ho finita mai, con buona pace di mia madre».

 

Da lì in poi ha lavorato con tantissimi maestri: Luca Ronconi, Leo Muscato, Antonio Latella. «Chiudermi per tanti anni in teatro per me è stato questo: la magia di poter riflettere sull’essere umano raccontando storie dall’interno».

 

Tutto è cominciato dal palcoscenico, dunque, poi, ad un certo punto, il successo con la serie “Romanzo criminale” (2008-2010). «Dopo sono tornato a fare il cameriere al ristorante dove ho lavorato anni e anni. Il mestiere di attore non è un lavoro di privilegiati, ma arriva dopo anni di studio, sacrifici, passione. Per me lavorare come attore significa fare un lavoro di artigianato, è come andare in bottega, come fa un pittore e o uno scultore. Non a caso Vittorio Gassman chiamò così la propria scuola, Bottega, dove il grande pubblico entra e ti vede soltanto quando metti lo smoking e sei sotto le luci». E i risultati si vedono. 

 

Ha lavorato in oltre 40 film, anche internazionali, diretto da David Evans, Woody Allen, Paul Haggis, fino al film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”. Ma era prevedibile un tale successo? «Nessuno se l’aspettava. Leggendo la sceneggiatura avevo capito che fosse un film bellissimo e poi quando Paola mi ha chiesto di fare quel ruolo ho detto subito di sì. Ho capito che per lei era un film importante, aveva le idee molto chiare, ci lavorava da anni. E io avevo percepito la grandezza dei temi: la violenza domestica, il ruolo della figura femminile, e quel finale... Tante donne sono tornate a vederlo con le loro madri e molti uomini, vedendolo, hanno riconosciuto che siamo tutti coinvolti, anche chi non alzerebbe mai una mano su una donna, siamo tutti intrisi di patriarcato. Speriamo che un giorno nessuno chiederà più com’è essere una regista donna».

 

Intanto pensa già al futuro. «Per il teatro c’è uno spettacolo in programma, “Illusioni”, di cui firmerò solo la regia, che debutterà al Mittelfest il prossimo anno; è il testo di un autore russo contemporaneo, Ivan Vyrypaev, che ha dovuto prendere la cittadinanza polacca per evidenti motivi politici».

 

E non è finita qui. Con sua moglie, l’attrice Milena Mancini, Vinicio ha fondato nel 2018 la casa di produzione Anton Art House. «Ci prendiamo la libertà di fare quello che ci piace. In questo momento lei sta portando in scena “Amore, il teorema di Sarah”, con la mia regia. Per me è un privilegio dirigere un’artista come lei, credo sia un’attrice straordinaria». Vinicio e Milena hanno due figli, Marco e Marcello. Certo, non deve essere facile essere genitori con un lavoro che richiede spesso di essere fuori casa. «Sono un padre che cerca di essere presente, anche se è complicato. La nostra è una casa di artisti, i nostri figli sono cresciuti in mezzo ai colori, ai disegni, ai trucchi e ai vestiti, dietro le quinte dei teatri. Però ci siamo, li aiutiamo anche nei compiti, Milena si occupa della matematica, io dell’italiano. Diciamo sempre che stiamo lavorando anche affinché siano liberi di poterci mandare a quel paese quando non ci sopporteranno più».