L'autrice del "Dio delle piccole cose" e di tanti saggi politici militanti è stata rinviata a giudizio. Rischia una condanna per terrorismo a causa di una frase, detta 14 anni fa, a favore dell'indipendenza del Kashmir. Mentre la morsa del regime indiano la obbliga a tacere, i lettori devono continuare ad far risuonare la voce dei suoi scritti

Arundhati Roy, la scrittrice indiana più famosa al mondo, sarà processata per terrorismo e rischia di essere condannata ad anni di carcere. La notizia ha fatto rapidamente il giro del pianeta, ma ha anche ispirato una domanda scomoda: in effetti, che fine ha fatto Arundhati Roy? A chi le ha chiesto un commento sul rinvio a giudizio, la scrittrice ha risposto picche. Ma da quanto tempo non la si sente più parlare, o scrivere, o prendere posizione su un tema qualunque?

 

Le due cose ovviamente sono correlate. Perché come ben sanno i regimi liberticidi, minacciare un processo basta a zittire la vittima. Soprattutto se, come è successo alla scrittrice indiana, la minaccia viene accompagnata da manifestazioni sotto casa, da esagitati che bruciano fotografie della diretta interessata e le augurano la morte più cruenta. 

 

All'inizio la scrittrice si è difesa pubblicamente: «Sono stata accusata di incitare all'odio, di volere la divisione dell'India. Al contrario, quello che ho detto nasce dall'amore e dall'orgoglio. Viene dal miio desiderio di non vedere più persone uccise, stuprate, imprigionate, torturate strappandogli le unghie per forzarle a dichiarare di essere indiane. Va copatito una nazione che deve zittire i suoi scrittori per impedir loro di dire quello che pensano». 

 

Con gli anni però le cose sono peggiorate. Da quando Roy si è ritrovata nel ruolo della più famosa oppositrice del regime nazionalista di Narendra Modi, restare in India ha significato per lei chiudersi nel silenzio. E affidarsi per la sua difesa davanti al tribunale ai suoi avvocati. E al sostegno dei suoi lettori in tutto il mondo.

 

Il crimine di cui Roy è accusata non sarebbe tale in qualsiasi Paese che ammette la libertà di parola. Quattordici anni fa, nel corso di una manifestazione a sostegno della lotta per l’indipendenza del Kashmir, uno Stato di confine conteso tra India e Pakistan, Roy ha detto che «storicamente il Kashmir non è mai stato indiano». Un’affermazione che i nazionalisti indiani, diventati ancora più forti e prepotenti da quando al potere c’è Modi, hanno considerato un palese tradimento della Patria.

 

Prima hanno cercato di processare Roy invocando la legge inglese contro la sedizione: peccato che quella legge coloniale nata per difendere l’Impero britannico sia stata abrogata nel 2022. Allora sono state chiamate in causa le recenti norme antiterrorismo, giustificate anche dal fatto che il Kashmir è a prevalenza islamica.

 

In attesa del processo, mentre Arundhati Roy tace e gli scrittori vengono invitati a prendere posizione da sostenitori famosi come Amitav Gosh e Naomi Klein, i lettori di tutto il mondo una cosa possono farla: continuare a farla parlare attraverso le sue opere. È l’ora di leggere o rileggere, anche organizzando maratone di lettura collettiva, il suo libro d’esordio, “Il dio delle piccole cose”, romanzo d’amore e di tolleranza tra etnie, caste e religioni che nel 1997 ha folgorato anche i giurati del Booker Prize (in limine, una dedica a John Berger: è bello leggere la loro conversazione con Maria Nadotti pubblicata da Casagrande con il titolo “La speranza nel frattempo”). 

 

Quasi vent’anni più tardi, “Il ministero della suprema felicità” portava quelle premesse a conseguenze ancora più dichiarate: di quel romanzo attesissimo Daniela Bezzi aveva dato ai lettori dell’Espresso un assaggio in anteprima. Poi sono venuti i saggi politici, non solo sul sostegno alle lotte del Kashmir ma anche sui danni ambientali provocati dalla costruzione di dighe sempre più gigantesche: Guanda, che ha tradotto in italiano tutte le sue opere, ha pubblicato “Il mio cuore sedizioso”, “I fantasmi del capitale”, “Guida all’impero per gente comune”. Le prese di posizione cristalline hanno dato a questa architetta forte e minutissima una voce potente. Una voce che continua a farsi sentire anche quando è costretta al silenzio.