Una scrittrice cela la sua identità per raccontare sotto pseudonimo un viaggio collettivo: quello delle eroine persiane di ieri e di oggi. Alla guida, con coraggio, della rivolta di un popolo

In questi ultimi mesi, esco di casa quasi sempre quando è ancora giorno, verso le tre o le quattro. L’ombra mostruosa delle foglie del fico taglia diagonalmente la via, e la luce angosciosa dell’autunno allunga sulle porte e sui muri delle scie cupe e deformate che sembrano voler fuggire dalle stanze.

 

Non indosso il manto. Una giacca leggera, un pantalone nero e, ancor più necessarie della mascherina, un paio di scarpe da ginnastica, per correre, se ce n’è bisogno. La mia “nuvola in calzoni”. Mi chiudo la porta alle spalle. Poi, come quando si volta pagina in un libro, mi ritrovo nel capitolo seguente: per strada. Ed è là che cerco di trovare il destino di un movimento o di una rivoluzione nascente. Di trovare la speranza, in realtà.

 

A differenza delle manifestazioni precedenti, si può notare che stavolta, oltre al centro della città, altri grandi quartieri sono in agitazione; sono piccole macchie chiare in una tazza tappezzata di fondi di caffè.

 

Mahsa Amini, la giovane arrestata e uccisa il 13 settembre 2022 dalla polizia religiosa iraniana

 

Ma perché siamo così tanti a scendere in strada? Vogliamo cancellare quanto è successo nel 1979? Rigettare il regime islamico? Anche se non eravamo ancora nati all’epoca, solcando le strade, cerchiamo di ripulire la nostra coscienza nazionale dai rimorsi che la macchiano.

 

Di solito raggiungo un viale del centro. Un grande canale, ora asciutto, più di un secolo fa lo attraversava. Ma la malasorte non tocca soltanto i fiumi. Prima della rivoluzione del 1979, proprio nel mezzo di questo viale (di fronte al ministero dell’Agricoltura) c’era la lugubre statua di una donna e di un uomo. La buona società dell’epoca non la considerava affatto un’opera d’arte. Anzi, era di fattura così rozza che le pesava addosso un’accusa di comunismo. Una donna con una camicetta e una gonna larga che le arrivava al ginocchio, felice ma seria, innaffiava le piante. Accanto a lei, un uomo con in mano una ruota dentata.

 

Dopo la rivoluzione, gli ulema di Qom, il centro religioso dell’Iran sciita, ordinarono per prima cosa di coprire con una tela cerata i capelli della donna, a mo’ di foulard. Non si dovette attendere molto perché anche le sue gambe venissero coperte alla stessa maniera. Prima, la gente passava accanto alla statua senza farci caso. Dopo questa decisione paternalistica, invece, l’attenzione dei passanti fu attirata dalle gambe della contadina. Proprio come avviene per i siti porno, niente è più efficace di una mentalità religiosa nel far sì che una situazione insignificante diventi un fenomeno artatamente eccitante. A quel punto, la statua venne rimossa e trasferita nel cortile posteriore del Museo d’arte contemporanea.

 

 

Quando mi trovo su questa strada, a volte penso al significato di quella statua. Ma per la verità, in quei momenti, non le dedico tanta attenzione. Nessuno ci pensa. Andiamo lì perché quello è il punto di intersezione di diverse arterie principali. Scendo giù per il viale grigio e scolorito e attraverso incroci presidiati da squadre di poliziotti antisommossa. Schieramenti disordinati, con una gran quantità di moto, manganelli e accessori vari, buttati là, come i ritratti di Khomeini e Khamenei, onnipresenti sui muri delle scuole o degli uffici. La rappresentazione caotica di un potere caotico.

 

È già da un po’ che non mi rimetto in testa il foulard passando davanti a loro. Io come tante altre. So che niente impedirebbe a un soldato di impugnare il fucile e crivellarmi di proiettili. È il fenomeno di cui parla Asef Bayat.

 

Il faccia a faccia quotidiano con gli agenti della repressione, a dispetto di ogni differenza e divergenza. Come questa manifestazione di piazza, anticipata ovunque dalla polizia. Tutto è sottoposto a un maldestro maquillage del potere, un coraggio che si mostra più di giorno che di notte: l’esercizio spirituale di anime angosciate, i capelli sciolti su una testa piena di furore e di entusiasmo. Offriremo una nuova testimonianza alla nostra epoca, attori della rivoluzione talvolta fino al martirio.

 

Un martirio che non è solo nostro. Nella storia di questa nazione saranno iscritte donne che, davanti a ogni sorta di arbitraria imposizione, si sono consegnate al loro destino: diventare martiri.

 

Ne fanno parte donne condannate, senza la difesa di un avvocato, a vent’anni di carcere per aver difeso i diritti di altre donne e dei bambini. Madri che finiscono in prigione per aver reclamato giustizia per l’assassinio dei propri figli. Donne che protestano contro la lapidazione e subiscono più volte delle finte esecuzioni. Quella che si è data fuoco, immolandosi nel cuore della città, per affermare che non abbiamo il diritto di disporre dei nostri corpi. Quelle che, per aver manifestato, sono condannate a decine di colpi di frusta. Possiamo definirle tutte proteste viventi. Ma anche le donne e gli uomini, e sono tanti, che, sulle colonne dei propri giornali, hanno scritto di questi assassinii di donne e che, prima ancora che i giornali andassero in stampa, sono stati gettati in prigione. O la donna che, una mattina, ha lasciato il suo bimbo a casa per salire su un traliccio in una strada di Teheran brandendo il suo foulard legato a un bastone.

 

È lecito allora domandarsi se tutto questo è semplicemente da ascrivere al filone delle testimonianze dei martiri, o non sia piuttosto il manifestarsi di un aspetto sconosciuto di questa nazione – gruppi di donne invisibili che appaiono sporadicamente nei titoli dei giornali di tutto il mondo per scomparirne subito dopo. E solo se la loro testimonianza sfocia nel carcere o nell’esecuzione. Perché il mondo cerca continuamente di creare miti e vuole nomi di eroi.

 

Non sappiamo cos’è successo a quelle decine di donne senza nome, e forse non lo sapremo mai. Qual è stata l’entità del ruolo che ha avuto ognuna di queste donne che conosciamo, se davvero ne hanno avuto uno, forse solo la storia, col tempo, ce lo dirà – ma guardando a ritroso questi ultimi quarantaquattro anni, possiamo vedere quanto sia aumentato il numero di donne che hanno preso posizione. La loro resistenza – per quanto discontinua, sia pur progressiva – ha trasformato la loro lotta in una disobbedienza civile così potente che il mondo alla fine è stato costretto ad accorgersene. Non siamo più lo stereotipo di un paese sfortunato. Incarniamo la contestazione.

 

Cronache di vita e libertà
Una testimonianza potente. E un racconto in presa diretta delle rivolte per le strade iraniane. Chiamando ad adunata tutte le donne che hanno contribuito a mantenere alto il desiderio di uguaglianza e di riscatto, nel tempo: poetesse, leader, donne di cultura, martiri che non hanno esitato a togliersi in pubblico l’hijab contro il regime degli ayatollah. “Nelle strade di Teheran” è il resoconto narrativo di questo filo rosso che le lega. Da una voce in lotta in prima persona, che per questo ha scelto di non svelare la sua identità per eludere la censura. Il libro è pubblicato da Gramma Feltrinelli.