L’omicidio di Mahsa Amini e le rivolte che sono seguite riprendono il filo della battaglia per i diritti iniziata nel 1979. Che fu repressa nel sangue e nella violenza. Oggi l’esito deve essere diverso. Parla lo scrittore

È martedì 13 settembre 2022. Mahsa ha 22 anni, la metà di quelli della Repubblica Islamica. Ha da poco superato l’esame d’ammissione all’università, l’incubo di tutti gli studenti del mondo. Fuorisede, non c’è alternativa. A quattro ore d’auto da dove è nata e vive. La sua lingua madre è curda e quella d’istruzione è persiana. Nuova città, nuovi amici, persino una nuova lingua, la lingua locale lì è il turco azero. Ora però Mahsa si trova a Teheran, nella Capitale. Un viaggio per fare un po’ di shopping prima di iniziare la nuova vita. Dalla prossima settimana si dedicherà a realizzare il suo sogno: essere una donna istruita e indipendente. Sa che richiederà grandi sacrifici. È una ragazza della sua generazione. Naviga sui social, l’unica finestra che le permette di osservare il mondo. Oggi per l’occasione ha indossato il suo vestito migliore; un poco di rossetto sulle labbra, un foulard nero sulla testa e il ciuffo ribelle che le fuoriesce come a quasi a tutte le donne. Poco prima si è fatta fotografare sorridente, seduta sulla metropolitana.

 

È tardo pomeriggio, le 18 passate. Poco distante dalla fermata della metropolitana, Mahsa incappa in una pattuglia della Polizia morale. Da quando il conservatore Raisi è diventato il presidente della Repubblica Islamica sono tornati più numerosi ad assediare le strade più frequentate: ti fermano, t’insultano, ti caricano con violenza sulle camionette, ti traducono in commissariato, ti spaventano, e se ti va bene, col buio, quando hanno riempito la sala di donne «mal velate o malvestite», arriva il predicatore di turno per un sermone collettivo sull’uso corretto dell’hijab. Come se i problemi che affliggono il Paese siano i capelli e l’abbigliamento femminile e non la corruzione e la loro acclarata incapacità di governare e di gestirne le risorse. Alla fine paghi una multa in base al reato commesso, c’è il prezzario, e ti liberano. Resti schedata per sempre.

Intervista
La nobel Shirin Ebadi: «Il mio Iran è un fuoco che covava sotto le ceneri. E le donne lo hanno acceso»
30/9/2022

La pattuglia è composta da due uomini e due donne. Hanno già caricato altre ragazze. Mahsa non vuole seguirli. Non ha fatto nulla di male. Ha l’accento curdo, un’aggravante, fa parte della minoranza etnica da sempre ostile alla Repubblica Islamica. Il fratello minorenne prega gli agenti, li supplica, spiega che sono stranieri nella città. Mahsa ha paura che arrestino pure lui. Protesta. Resiste. Inutilmente. È un attimo. Un istante che segnerà la storia di una nazione. Basta una frase e la mano armata della Repubblica Islamica colpisce forte.

 

Torniamo indietro. Siamo a meno di un mese dalla vittoria della Rivoluzione del 1979, Khomeini è intento a instaurare una dittatura fondata su un pensiero unico, il Suo, identico a quello del clero teocratico e fondamentalista che lo circonda. A 14 secoli di distanza vuole una società non ispirata ma identica a quella dei tempi del Profeta.

 

L’Iran in quel momento è un Paese secolarizzato, fuori dai luoghi di culto le donne sono libere di girare vestite come desiderano. Il diritto di famiglia stilato dalla monarchia è migliorabile ma le tutela. Svolgono tutti i lavori, anche quello del giudice che dopo verrà loro proibito. Scrivi dittatura e leggi sistema patriarcale. Il 7 marzo Khomeini mette in atto i suoi intenti e proclama: «Negli uffici pubblici islamici non si deve commettere peccato. Le donne possono frequentarli ma solo indossando il velo. Non è un problema se ci lavorano, però indossino correttamente l’hijab». L’obbligo di portare il velo non è ancora legge dello Stato, lo diventerà da lì a poco, durante gli anni bui della guerra contro l’Iraq di Saddam: chiunque la violi è punibile con 72 frustate.

 

In un colpo solo Khomeini trasforma ciò che ritiene peccato in reato: la metà del cielo è costretta all’oscurità, impegnata da quel momento in poi a lottare per riottenere i diritti perduti. Il giorno dopo, per celebrare la festa della donna, non molto lontano da dove ora Mahsa discute con gli agenti, scoppia la prima grande protesta contro quella che da lì a poco si sarebbe chiamata la Repubblica Islamica. Le donne partecipano numerose. Sono donne istruite, casalinghe semianalfabete, in minigonna, con l’hijab, studentesse, lavoratrici. È un massacro. Il primo dei tanti. Vengono prese a sassate dai falangisti al soldo di Khomeini. Sfregiate in faccia con il cutter. Arrestate. Torturate. Uccise. Gli uomini? Si tengono a distanza. La priorità in quel momento è proteggere la Rivoluzione. L’uomo che l’ha guidata con carisma non va contraddetto, i suoi adulatori hanno la mano pesante. Il collante che ha portato alla vittoria della Rivoluzione a suon di Allah-o akbar è pur sempre il flebile sentimento religioso presente in buona parte della popolazione. È il punto di non ritorno. La dittatura è servita.

 

Seguiteranno tante altre proteste, linciaggi, torture, morti, e 44 anni di schizofrenia comportamentale nella società iraniana, perché la vita privata e quella pubblica spesso sono in conflitto. Khomeini stermina l’opposizione interna e muore una decade dopo quella prima protesta. Al suo posto i teocrati nominano Khamenei, non è un ayatollah, secondo le loro stessi leggi non potrebbe nemmeno coprire il ruolo di Guida suprema. Si fa passare per fantoccio nelle mani del suo più grande rivale, Rafsanjani. Attende il momento giusto. Si dimostra negli anni a venire un falco, ha in mano i tre poteri esecutivi, dei pasdaran, delle milizie armate e dell’esercito. Regna con la paura, il terrore, la morte. Etichetta tutte le proteste come rivolte organizzate dai nemici stranieri, dagli antirivoluzionari.

 

È una crepa. E segna il destino catastrofico della diga che non può più contrastare la spinta. È profonda. Mahsa vede tutto confuso. Il tempo è come se fosse rallentato. Le immagini sono sfocate, confuse. Barcolla. Cerca di sostenersi. Crolla. Non è la prima e non sarà l’ultima ragazza ad aver saggiato il pugno duro del regime, l’elenco è lungo e continua ad aggiornarsi ogni istante. Un’attivista civile però segue il suo caso. La immortala in una foto che forse Mahsa non avrebbe mai postato sul suo profilo. Finirà su tutti i canali social. È sul letto di un ospedale, intubata, la testa fasciata, l’orecchio sanguinante, in coma.

 

Dalla crepa in testa al ritorno nella sua città natale passano 4 giorni. I suoi genitori decidono di seppellirla nel cimitero il sabato mattina nonostante le minacce e le intimidazioni ricevute perché la cerimonia funebre si svolga di notte. In silenzio. Senza rumore. Le proteste però sono già cominciate. La gente accorre dalle altre città in solidarietà alla famiglia. Le strade di accesso alla città vengono bloccate. Si crea una coda chilometrica. Dopo aver coperto il suo corpo di terra, una ragazza urla: «Donna, vita, libertà» in curdo. Il grido di chi si spezza ma non piega la testa. Coraggiose. Resistenti. «Morte al dittatore e alla Repubblica Islamica» è l’eco che si alza. Mahsa non poteva saperlo. Inconsapevole vittima e simbolo della lotta. Questa volta è lei a segnare il punto di non ritorno. Lei ad aggregare il popolo. Ora il pensiero unico è: il Paese sarà libero se le sue donne saranno libere, il Paese sarà democratico solo se le sue donne avranno gli stessi diritti degli uomini.

 

Il massacro è in corso. Non lasciamole sole ancora una volta. Non lasciamoli soli in questa battaglia per la democrazia. Aiutiamoli in nome di #MahsaAmini. È una rivoluzione. È donna.