Intervista

Le verità di Oliver Stone : «Lula è autentico, Obama un falso. Trump sostiene Bolsonaro: aspettiamoci colpi di testa fascisti»

di Claudia Catalli   26 giugno 2024

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“Non mi interessa la finzione. Cerco il mondo reale, il faccia a faccia con le persone. Più invecchio, più voglio andare a fondo”. Scomodo e controcorrente, il grande regista riflette sul presente: democrazia, America, destre al potere, guerre

Non c’è regista al mondo più scomodo e deciso a sfidare il pensiero comune di Oliver Stone, da sempre impegnato a portare sullo schermo prospettive inedite, spesso controverse, sui casi eclatanti della Storia e i leader politici del mondo. Accanto a film di finzione come “Platoon”, “Nato il 4 luglio”, “Wall Street” e “World Trade Center”, la sua filmografia è costellata di lavori documentaristici tesi a sollevare dibattiti, evidenziare contraddizioni sui casi eclatanti del presente o del passato, o raccontare figure altamente dibattute. Lo ha fatto con la guerra in Vietnam, combattuta in prima persona, con l’assassinio di J.F. Kennedy, con nomi come Bush jr., Fidel Castro, Vladimir Putin, e adesso con “Lula”, diretto a quattro mani con il sodale Rob Wilson e presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes. Nel ritratto che Stone fa dell’attuale presidente del Brasile emerge il modello di una leadership progressista e di un uomo «umile», che da cinquant’anni dedica la sua vita alla politica.

 

Mr. Stone, dica la verità: crede ancora nella democrazia?
«Penso sia una parola molto bella. Ma come si traduce nel concreto? Prendiamo ad esempio gli Stati Uniti, abbiamo un sistema bipartitico che non funziona, è rigido, impone agli elettori di rientrare per forza in una delle due categorie. Ma perché? In Europa esiste un sistema multipartitico, non ho mai capito perché noi americani dobbiamo ostinarci a mantenere un sistema che non va. O perché dobbiamo spendere due milioni di dollari per avere un presidente, quando Paesi come Francia e Inghilterra hanno un budget limitato da spendere in un tempo altrettanto limitato. Questo mi pare più sensato e vicino alla democrazia».

 

“Lula”, protagonista dell’ultimo film di Stone;

 

La preoccupa l’avanzata dell’estrema destra, in Europa e nel mondo?
«Oggi la gente vuole leggi e ordine, lo sappiamo da ogni elezione. In America funziona così sin dagli anni Sessanta. Mi viene in mente Frank Rizzo, ex sindaco di Philadelphia a capo della polizia. Il binomio di legge e ordine è una grande attrazione e, concretamente, mira a dividere i cittadini e tenere alto il livello della paura. Ormai va di moda parlare di sicurezza, pensiamo a quanti programmi tv abbiamo in America sulla polizia, saranno l’80 per cento. La paura della gente produce come risultato politiche che possono arrivare ad estremismi, ma occhio a usare la parola “fascismo”».

 

In che senso?
«Tendiamo ad abusarne, è facile puntare il dito contro i nemici politici definendoli “fascisti”».

 

una scena del film-documentario del 2022, “Nuclear Now”

 

Come definirebbe allora chi non si dichiara pubblicamente “antifascista”?
«Dico solo di stare attenti, in America usiamo troppo facilmente il termine “fascista” per descrivere qualcuno che magari è solo anti-americano. E poi ci sono vari tipi di “fascismo”, dovremo capire bene cosa intendiamo con quella parola e per chi la usiamo».

 

Per chi la userebbe lei?
«Per uno come Bolsonaro, che non ha mai fatto passi indietro né misteri sulla sua mentalità dittatoriale, l’ha anzi rivendicata».

 

L’umanità sembra non imparare mai dal passato, la preoccupano i corsi e ricorsi storici?
«Potremmo tornare indietro di millenni, alla storia dei greci e dei romani, e vedere che certe cose non sono mai cambiate. Oggi sono molto preoccupato su diversi fronti, primo su tutti la guerra. Le sembra che gli Stati Uniti abbiano mai imparato dal passato? Sono rimasti un Paese aggressivo, molto aggressivo. Eppure ricopre un ruolo enorme nelle guerre, pensiamo a quella in Ucraina. L’Ucraina vuole tutto, «Venite a salvarci, venite a salvarci», intanto ognuno pensa ai propri interessi e nessuno pensa a come evitare concretamente una guerra mondiale, nessuno parla di pace. L’America da sempre spende miliardi per le guerre a cui si prepara e partecipa senza sosta, quando avremmo solo bisogno di pace. Per questo ho voluto portare sullo schermo la storia di Lula, un leader che prova a essere una voce per la pace».

 

Intervistare leader politici è diventata una seconda carriera per lei.
«La prima volta che ho incontrato Lula era il 2009 con “A sud del confine” su Chavez e la rinascita socialista dell’America Latina, ma ho girato anche “Comandante” nel 2002 e subito dopo ho diretto “Looking for Fidel”. Insomma, sono sempre stato impegnato a capire e raccontare cosa accade veramente nel mondo, al di là di quello che ci viene detto e che spesso non corrisponde a verità».

 

Nato il quattro luglio”

 

Dal 1971, anno in cui firmò “Last Year in Viet Nam”, di ritorno dalla guerra, a oggi, com’è cambiato il suo modo di indagare la realtà?
«La voglia di andare a fondo nelle cose non mi è passata, anzi più invecchio, più il film di finzione fine a sé stesso mi entusiasma meno. Anziché restare nel mondo patinato di attori e trucco, preferisco andare nel mondo reale e parlare faccia a faccia con persone che hanno un forte impatto sul mondo, perché lo modificano con le loro azioni».

 

Cosa prova nel girare questi documentari politici?
«Per me è come tornare sulla Terra, riprendere quel senso di realtà che molti cineasti hanno smarrito, non sanno più quali siano i bisogni e gli interessi veri della gente. Per questo mi piace Lula, è il leader più orientato al popolo che conosca: non ho mai visto nessun altro politico occuparsi tanto della gente e degli ultimi come lui».

 

Nel film alterna pezzi di intervista a materiali di repertorio, ne racconta anche l’infanzia non facile.
«È un uomo che sa cosa significa venire da zero. Sette fratelli, una madre che faticava a dare da mangiare a tutti, un padre che, appena nato lui, si trasferì a San Paolo per lavorare e dieci anni dopo si scoprì che si era fatto un’altra famiglia. Al Lula ragazzo la vita non ha fatto sconti, non finì neanche le elementari, iniziò a lavorare subito come lustrascarpe e come operaio in fabbrica, dove perse un dito schiacciato da una pressa. Un esempio di come si possa diventare persone illuminate pur venendo dal nulla».

 

E le accuse di corruzione?
«Io parlo solo di quello che ho visto con i miei occhi: ho passato qualche giorno con lui, non ho visto nessun segno di ricchezza. Dico io, se uno è corrotto almeno dovrebbe avere una bella casa con più stanze e fare una vita agiata, invece ho conosciuto un uomo modesto intento a condurre una vita umile e dedicata alla politica. Per lui la politica è sempre stata un’urgenza».

 

Per questo ha deciso di dedicargli un film?
«Ho voluto raccontare un uomo molto presente per la sua gente, a tratti divertente. Credo che chiunque passi del tempo con lui lo trovi piacevole, è un essere umano dotato di grande calore umano. La mia prospettiva è che abbia sempre lavorato per il bene del suo Paese, e ha saputo anche guardare al di fuori. Insomma, quando mi parlava gli credevo, le mie ricerche confermavano quello che diceva. C’è qualcosa che scatta o non scatta quando incontri una persona anche per un’intervista, lo senti se c’è qualcosa di autentico o no. Lula mi è sembrato autentico, a differenza di tanti altri leader politici, come Obama per esempio. Io odio Obama. Anzi no, non scriva che lo odio, diciamo che mi è sempre sembrato falso».

 

C’è una reale possibilità che Trump vinca le elezioni, come crede che influenzerà l’America Latina?
«Trump sostiene Bolsonaro, c’è da aspettarsi colpi di testa fascisti. Dicono che sia supportato dal 49 per cento dei brasiliani, mentre lo dico non riesco a crederci».

 

I suoi documentari mirano puntualmente a scardinare le prospettive comuni.
«Credo nel valore della verità, la ritengo importante, al di là della narrazione americana media, che di fatto è sempre una narrazione pro-America. Quando iniziano a venderci per vere cose che non lo sono mi scatta un allarme, non lo trovo sano. Per questo realizzai il film su JFK, il documentario è un buon modo per combattere la disinformazione. Non si tratta mai di censurare, sia chiaro, solo di discutere, aggiustare il tiro se necessario. È quello che ho fatto anche con “Nuclear Now”, dato che l’energia nucleare è stata completamente fraintesa e mal rappresentata».

 

Ovvero?
«Ci hanno educato ad averne paura. Molti pensano che il nucleare sia il nemico assoluto da combattere, la cosa peggiore mai accaduta. Non è così, è nostro alleato: l’energia nucleare non è uranio arricchito, non c’entra con la guerra, è il modo più efficiente, pulito ed economico per fornire l’energia di cui abbiamo bisogno. Più che delle scorie radioattive, che in quarant’anni perdono la radioattività, dovremmo preoccuparci del petrolio, del gas e dei combustibili fossili che hanno davvero effetti collaterali tossici, eppure il loro utilizzo nel mondo è passato dall’80 all’85 per cento. E il clima si sta riscaldando molto più velocemente del previsto. Provo pena per chi non lo vede, o non ci crede».

 

Sul set di “Platoon” nel 1986

 

Ha mai avuto paura di ritorsioni per questa sua attività di scandagliare scomode verità?
«Non penso che mi uccideranno per questo. Non è una battuta: molti giornalisti rischiano sul serio, operano da soli, non hanno la protezione di una troupe come la mia. Pensiamo a quanti giornalisti vengono uccisi in tutto il mondo, solo in Messico la situazione è drammatica».

 

Come definirebbe lo stato di salute del cinema attuale?
«Povero. Si ripetono sempre le stesse storie, i volti sono sempre gli stessi e i film tendono a somigliarsi tutti. Il vecchio modo di fare film è tramontato, ora è il tempo della serialità, sei ore e passa per raccontare una storia».

 

Ne racconterà presto una anche lei, di finzione?
«Ci sto già lavorando, non posso dire di cosa si tratti perché siamo nell’industria del copia-incolla. Appena parli di un progetto, magicamente, ne proliferano altri simili».

 

C’è un altro leader politico che vorrebbe raccontare?
«Gamal Abd al-Nasser, presidente della Repubblica in Egitto e suo leader più importante, profondamente trasformativo. Un uomo intelligente, bello come una star di Hollywood, e colto, veniva da Oxford. Eppure di lui in America ho letto cose orribili. L’America del resto tende a criticare quelli che non capisce».

 

Anche lei è spesso bersaglio di critiche feroci. A 77 anni la scalfiscono ancora?
«Ci sono abituato, le mie posizioni non devono piacere a tutti, anzi trovo interessante discutere con chi non è d’accordo con me. Continuo a essere fedele a una sola filosofia, quella del fare».