Per i diritti civili. Per l’ambiente. Per i migranti. E ora per il cessate il fuoco nei territori palestinesi occupati. Di recente l'attrice e produttrice statunitense è stata scaricata dalla sua agenzia: "In America chi fa domande spaventa", dice lei, attivista da sempre: “Mi chiedo come sia possibile non esserlo oggi”

«I sondaggi dicono che in tanti in America vogliono il cessate il fuoco, eppure il Paese continua a finanziare la guerra, come si fa a chiamarla democrazia?».

 

Solleva domande scomode l’attrice e attivista Susan Sarandon, 77 anni, prima di ritirare l’Icon Award 2024 al Riviera International Film Festival. «Viviamo in un’epoca in cui tutto è precario, il lavoro, l’economia, il clima, la politica, persino la libertà», dice l’attrice premio Oscar per “Dead Man Walking – Condannato a morte”, che sta scontando sulla sua pelle le conseguenze di essere un’artista che non si tira mai indietro quando c’è da esporsi politicamente. «Neanche io sono libera di dire quello che penso, perché la censura negli Stati Uniti è molto forte: i manager mettono pressione agli attori, hanno un atteggiamento intimidatorio».

 

Susan Sarandon, partiamo proprio da qui. Lei è stata di recente scaricata dalla sua agenzia. Cosa è successo?
«In America chi fa domande spaventa. L’agenzia che mi seguiva da dieci anni (la United Talent Agency, ndr) mi ha scaricato perché nell’agenzia ci sono due donne ebree e io ho partecipato alla marcia di protesta per quello che sta accadendo a Gaza. A nulla è servito far notare che alla marcia partecipavano anche molti ebrei. È stato uno shock, in agenzia hanno sempre saputo chi fossi: io sono sempre stata attiva a livello politico. Eppure mi hanno visto di colpo come una minaccia, un tradimento. Sono persino andati da un giornale di poco conto per raccontare una storia drammatica e fantasiosa di me in versione antisemita, cosa che non sono. È stato un brutto momento».

 

Hollywood non protegge gli attori attivisti?
«Premesso che non vivo a Los Angeles ma a New York, ricordiamoci che agli Oscar Jonathan Glazer (il regista del film “La zona d’interesse”, premiato come miglior film straniero dell’anno, ndr) ha ricevuto una lettera di condanna firmata da più di mille persone. Per lui, che ha fatto un film sull’Olocausto, rendiamoci conto dell’assurdità! A me sembra orrendo, non ho idea di cosa succederà in termini di attivismo, non solo tra gli attori. Pensiamo ai giovani che si ribellano nei campus universitari, dicono che sono violenti e non è vero, protestano pacificamente com’è normale che facciano. Ci sono tanti modi per fermare l’opinione pubblica e spaventare le persone, oggi è diventato fin troppo facile».

 

La festa di thanksgiving a New York

 

Tra l’altro ci avviciniamo alle elezioni americane, che sensazioni ha al riguardo?
«Non so cosa accadrà, provo a proteggermi dagli incubi, ma trovo sia difficile per Biden essere rieletto per tante ragioni, tra cui Israele. Il genocidio è il massimo del fondo in cui possiamo mai arrivare come esseri umani. Per quando riguarda il fascismo, poi, non si tratta di una minaccia futura, ma presente: Trump è fascista, il fascismo da noi c’è già. E con questa affermazione temo che rimarrò per sempre sulla lista nera».

 

Come è riuscita a combinare sin da giovane la sua carriera con l’attivismo?
«Per lavoro mi viene chiesto di usare l’immaginazione, ecco: nell’immaginare cosa significhi essere madre di un figlio ucciso dalle bombe non può non scattare immediata l’empatia. Proprio non capisco come sia possibile non essere attivisti oggi».

 

Pensa che sia questa la missione degli artisti?
«Gli artisti dovrebbero farsi testimoni di ciò che accade, amare la verità e trovare un modo per raccontarla e condividerla. È quello che nel mio piccolo provo a fare da sempre, solo che oggi mi scontro con più censura e punizioni, ma come persona resta fondamentale ricordarmi chi sono, come vivo e quale responsabilità ha il mio stare al mondo. Non posso non chiedermi come sia possibile cancellare una popolazione intera a Gaza sotto le bombe. Non posso non dire che nessuno di noi sarà libero finché non lo saremo tutti quanti».

 

Susan Sarandon a Lesbo, in Grecia

 

Politica a parte, quali sono i valori da cui sceglie di farsi guidare?
«Ai miei figli ho sempre detto di rimanere autentici verso sé stessi, essere gentili con gli altri e trovare, se possibile, cosa li renda veramente unici al mondo».

 

Agli attori emergenti, invece, cosa si sente di consigliare?
«Passare tempo per capire chi si è, cosa si ha a cuore e far pace con sé stessi conta molto di più che fare classi di improvvisazione e seminari. E poi avere la consapevolezza che il nostro è un mestiere fatto di rifiuti, ricevere “No” fa parte del gioco: bisogna prendersi poco sul serio per non far mai sminuire la gioia, fondamentale per l’arte. Ricordarsi, infine, che se smettiamo di fare errori nulla è più interessante».

 

A proposito di rifiuti, qual è il più grande ruolo che ha rifiutato nella sua carriera?
«All’inizio della mia carriera mi proposero un film con una star maschile molto famosa intenta a uccidere prostitute in un contesto sessuale. Ho detto chiaro: “Non penso di poter partecipare. Non condivido questa idea di mascolinità, recitare in questo contesto per me sarebbe difficile e non salutare”. Mi risposero che ero solo un’attrice e che non era compito mio mettere in discussione queste cose, così ho rifiutato».

 

Si è pentita?
«No, mi sono più pentita di non aver fatto il provino per “Il Padrino”, ma ai tempi non avevo ancora un agente, è andata così. Forse da una parte anche meglio, essendo un film di soli uomini».

 

L'attrice e produttrice americana Susan Sarandon

 

In compenso ha recitato in film diventati cult, su tutti “Thelma & Louise”.
«Mi fermano ancora per parlare di quel film e mi fa piacere, come il pubblico anche io ci sono rimasta molto legata. Ma a me fa piacere anche quando mi fermano per film amati dalle nuove generazioni come “Blue Beatle”, in cui mi hanno affidato uno strepitoso ruolo da cattiva, dopo avermi scannerizzato tutta in 3D. Devo ammettere che fare la parte della cattiva è sempre divertente, anche alla mia età».

 

Da sempre ha un rapporto molto stretto con l’Italia, se le chiedessi un ricordo sul set di Monicelli (film “La mortadella”, 1971)?
«Ricordo che tutti parlavano italiano, io ero giovanissima e non capivo nulla, era il caos più totale. Ricordo poi l’arrivo sul set di Sophia Loren, aveva una luce pazzesca. Mi piacerebbe lavorare di nuovo con registi italiani, spero che mi chiamino presto per un nuovo film».

 

Cosa le piace del cinema italiano, più di tutto?
«Il cinema americano è direttamente collegato alla televisione, con decisioni puntualmente prese dalle multinazionali; il cinema italiano mi sembra più libero, arte pura, con registi per nulla spaventati dalle emozioni e tante storie meravigliose di donne protagoniste».

 

Susan Sarandon sul set del film “La mortadella”, 1971, diretto da Mario Monicelli, con Sophia Loren

 

C’è un film italiano a cui, per qualsivoglia motivo, è rimasta legata?
«Tanti, su tutti forse “Il conformista” di Bernardo Bertolucci: ha rivoluzionato la mia idea di cinema».

 

E tra i più recenti?
«Ho avuto modo di vedere “Io e il secco” (appena uscito al cinema, ndr) e l’ho trovato molto bello. Ho voluto ringraziare personalmente regista e attori per le emozioni che mi hanno trasmesso».

 

Il suo rapporto con l’Italia non si limita solo al cinema…
«Confermo, il vostro è sempre stato un Paese ospitale e amorevole con me, mi ha persino dato una figlia (Eva Amurri, ndr), oltre che una madre siciliana di Ragusa. Ecco perché da un po’ di tempo sto faticosamente cercando di ottenere il passaporto italiano. Spero di riuscirci, prima o poi».

 

Susan Sarandon in una manifestazione insieme agli sceneggiatori a Hollywood

 

Lo aveva detto anche la scorsa estate, ospite di un altro festival. Allora non poteva parlare di film, perché sosteneva lo sciopero di attori e sceneggiatori, durato 118 giorni. Il tema “intelligenza artificiale” la preoccupa ancora?
«Sì, perché sta sostituendo e portando via il lavoro degli attori, i loro corpi. Più che intelligenza si tratta di un ladro di fotografia, scrittura e arte che ruba proprietà che non gli appartengono e le mette nei computer. Ma ci sarà mai un momento in cui un computer saprà cosa vuol dire amare, perdere qualcuno? Intanto le nuove generazioni, abituate al linguaggio dei videogiochi, non riescono più tanto a comprendere la demarcazione tra reale e irreale e rispetto a un pubblico adulto accettano di più la presenza dell’intelligenza artificiale. Non so cosa succederà, ma spero che gli umani vogliano sempre continuare a vedere altri umani recitare. Lo spero di cuore».