Editoria
Premio Strega, Melania Mazzucco: «Non posso fare pronostici. Ma io sto sempre dalla parte delle scrittrici»
Una sestina di autrici e autori che ben conoscono l’editoria. Una pluralità di voci che racconta la vita di provincia. Alla vigilia del più importante riconoscimento letterario italiano, parla la Presidente del Comitato direttivo, vincitrice nel 2003: “Il Premio è vivo. E meno tradizionale di quel che si possa pensare”
Sono passati 21 anni da quando il suo romanzo “Vita” (Rizzoli), reinvenzione di una migrazione reale, quella del nonno Diamante verso l’America, vinse lo Strega. Tradotta in tutto il mondo, ha pubblicato altri libri, vincitori di importanti premi e spesso tradotti in film: da “Un giorno perfetto” alle storie del pittore veneziano Tintoretto e di sua figlia Marietta, fino a “L’architettrice”, omaggio a Plautilla Briccio e al fosco splendore del barocco, che hanno risvegliato l’interesse per le donne (dimenticate) dell’arte: “Self-portrait” è dedicato a loro. Oggi di quel Premio Melania Mazzucco è presidente del Comitato direttivo. E la scrittrice è anche la più rappresentativa rilevatrice del polso della nostra letteratura. Che passa in rassegna, ogni anno, nell’annunciare la dozzina finalista, in una foto di gruppo dei libri in gara. Alla vigilia della proclamazione del vincitore, il 4 luglio al Ninfeo di Villa Giulia, è lei a guidarci nell’edizione di quest’anno.
Donatella Di Pietrantonio, Dario Voltolini, Chiara Valerio, Paolo Di Paolo, Raffaella Romagnolo, Tommaso Giartosio, è la sestina finalista. Li abbiamo visti affiatati e complici nel book tour in Italia e all’estero. Questa sintonia è solo un’impressione e la battaglia è dissimulata?
«No, non lo è. So per esperienza che andare in giro insieme resterà nella loro storia di scrittrici e di scrittori. Quando ero in gara io, con il piccolo gruppo di finalisti andammo in Cina, e vivere insieme, parlare dei nostri libri, condividere per giorni emozioni e paure, arricchisce davvero».
Pur con libri molto diversi, li accomuna la naturalezza con la quale hanno affrontato la competizione: sono personaggi noti e con familiarità con le logiche editoriali.
«È vero, quest’anno hanno pagato una certa notorietà, l’esperienza e una storia che tutti e sei gli autori hanno alle spalle: sono scrittori conosciuti, operatori culturali, gente che scrive sui giornali. Mentre la dozzina era rappresentativa di un più vasto panorama e di diversi generi narrativi, e comprendeva libri anche più strani e nomi sconosciuti, il passaggio alla cinquina ha scelto nomi più consolidati. Gli Amici della Domenica e gli italianisti nel mondo sono andati sul sicuro, optando per nomi di garanzia».
Sbaglio o lo dice con un certo dispiacere?
«Per me è sempre una sorpresa vedere che i libri di autori sconosciuti prendano così pochi voti. Sinceramente, mi stupisce. Il Comitato direttivo, di fronte a 80 proposte per buona parte di soliti noti, è ancora più motivato alla lettura di libri di autori sconosciuti. Nella dozzina i voti invece risultano polarizzati. Ci resto male».
Quale libro le sarebbe piaciuto vedere in finale e invece non c’è?
«Io ho amato molto il libro di Antonella Lattanzi, perché è un libro di grande coraggio, che parla veramente di qualcosa che non si dice; è femminile in ogni fibra, in ogni parola. E nello stesso tempo ha una forza espressiva che spesso viene negata alla scrittura delle donne. Mi rendo conto che i lettori hanno un po’ paura di certi temi, così come all’inizio molti temevano di leggere il libro di Ada D’Adamo, l’anno scorso. Dicevano: l’argomento mi sconvolge. Però nel momento in cui lo prendevano in mano se ne innamoravano. E penso che se il libro di Lattanzi non è in sestina forse molti non l’hanno preso in mano. E mi dispiace».
Nel caso specifico l’esclusione ha tolto d’imbarazzo Einaudi, che non ha così due libri in gara, tra i quali dividere i voti.
«Il Premio Strega è un’elezione nella quale gli elettori sono liberi di votare. Sono liberi come siamo liberi tutti quando andiamo a deporre la scheda nell'urna. Einaudi può anche aver fatto le sue scelte e io non voglio saperlo, però le persone sono liberissime di contraddire gli editori».
Ma le piacerebbe che gli Amici della Domenica favorissero la scoperta di novità.
«Sì. Che dimostrassero almeno di avere curiosità per cosa scrivono i piccoli editori e autori completamente ignoti».
Sorprese emerse in questi anni?
«Ricordo Jonathan Bazzi che poi entrò in sestina, ma anche il libro di Marino Magliani, “Il cannocchiale del tenente Dumont”, mi era molto piaciuto. Ci sono spesso libri di grande valore letterario. E visto che inseguiamo il mito della letteratura, dobbiamo riconoscere che a volte la letteratura si annida nelle nicchie».
Tra i libri non in finale, ma divenuti lo stesso casi editoriali, viene in mente “Ferrovie del Messico” di Gian Marco Griffi.
«Lo Strega aiuta a metterti in luce, quindi può lanciare un libro anche se non è il vincitore, come accadde con “Resto qui” di Marco Balzano, nel 2018, che arrivò secondo, dopo Helena Janeczek. E “Ferrovie del Messico”, in dozzina ma non in cinquina, fu uno dei libri più letti dell’anno».
Con la parità nei generi di quest’anno, lontanissimo sembra il 2020, l’anno in cui il Premio andò per la seconda volta a Sandro Veronesi, e Valeria Parrella tuonò contro l’essere l’unica donna in finale.
«Con De Mauro è iniziato un processo di trasformazione che ha dato i frutti sperati: per il Premio Strega la questione maschile e femminile non è più attuale. Non perché siamo lì col bilancino, ma perché è superata la questione dell’accesso. Quando ho partecipato io era un grandissimo rischio la candidatura femminile: “la” candidata era considerata debole, chiunque fosse. E gli editori tendevano a non presentare scrittrici. Non accade più. È un riconoscimento a un premio nato tra grandi donne, Maria Bellonci e le sue amiche. Che fecero una battaglia disperata negli anni ’40 e ’50 per accreditare autrici, apparentemente perdendola -Anna Banti non vinse, ad esempio. Però, contribuirono a cambiare le cose in seguito. Un grande passaggio a vuoto c’è stato negli anni ’70 e ’80. Ed è stato necessario un nuovo impegno».
Ci sono due questioni che quest’anno avete risolto, ma che con tutta probabilità si riproporranno: il tema dell’autocandidatura - lanciata da Fulvio Abbate - e quello del self publishing -“L’ultima spiaggia” di Carmen Laterza. In entrambi i casi avete detto no.
«Siamo consapevoli che l’editoria sia cambiata. Ma l’idea da cui nasce lo Strega era di una società letteraria capace di fare filtro. Discutibile, ma puntava a valorizzare libri letti, discussi, valutati. Facendo da soli il meccanismo è perso».
E un libro senza editore potrà mai gareggiare?
«È un fatto sul quale bisognerà ragionare bene. In teoria, gli editori sono parte del Premio, perché assumono impegni, dall’inviare le copie a tutti i votanti al garantire la partecipazione degli autori agli eventi, perciò credo che su ciò vogliano dire la loro. Non nascondo che un dibattito tra di noi ci sia, perché il Premio, che è un simbolo del Paese, non può restare estraneo ai cambiamenti. So che l’argomento si imporrà sempre di più, se penso anche alle tante piattaforme che consentono a giovani scrittori di farsi conoscere. Non abbiamo preso una decisione definitiva. Fondamentale dovrà restare il lavoro del Comitato, dove le discussioni sono spesso accese perché costituito di persone con visioni anche molto diverse della letteratura. Ma tutte in grado di discutere profondamente dei libri».
È cresciuta la dimensione internazionale del Premio Strega?
«Sì, la rete degli istituti di cultura è più attenta e coinvolta con il voto. È anche un’esigenza legata a un cambiamento sociale: oggi comunità di lettori italiani molto consistenti si trovano a Parigi, a Londra, a Berlino, una generazione di giovani si sposta di continuo, vive altrove, scrive da lontano. Non coinvolgerli sarebbe rinunciare a una parte del nostro futuro letterario».
E il presente qual è? L’autofiction che nel 2023 ha consacrato Ada D’Adamo sembra dissolta: il biografismo guarda al linguaggio come in Di Paolo, Giartosio, Di Pietrantonio. Lei ha sottolineato un ruolo dello scrittore più consapevole di sé.
«In molti libri, da quello di Melissa Panarello a Dario Voltolini e Marco Lodoli, lo scrittore ritorna come osservatore del mondo di un altro. Torna, nelle narrazioni, la provincia: nei due grandi nomi in finale, in modo diverso, si affronta la prospettiva dei piccoli centri, della comunità, con i suoi segreti, i silenzi, i rancori, il giudizio. Non è neppure troppo sorprendente: l’Italia ha una delle sue caratteristiche più forti nel policentrismo: come la letteratura francese è per lo più parigina, da noi è fatta di paesi».
Il Premio Strega tratteggia la nostra letteratura. Ma per qualcuno i libri vincitori non la rappresentano abbastanza.
«Colpisce molto anche me, nei dibattiti intorno ai libri, l’affermazione “non è letteratura”: invidio tanta sicumera. La letteratura cambia e ciò che magari vent’anni fa non veniva considerata tale oggi lo è: anzi, è anche la migliore che si possa fare. Bisogna avere un’idea dinamica della letteratura».
E cosa deve restare, invece?
«La lingua, la visione del mondo, l’idea, la necessità. Però se la lingua è spoglia, a volte perfino cruda oppure grigia, chi ci dice che non sia letteratura? Io non mi sentirei di giudicare letterario soltanto ciò che è altamente sperimentale, iperletterario, citazionista. È un’idea vecchia. Lo Strega è vivo perché non è ancorato a un’idea statica, e paradossalmente è molto meno tradizionale di quello che si possa pensare».
Lei ha notato una cosa curiosa, tra gli oltre ottanta libri candidati: “Ci sono tanti liquidi, acqua, sangue, gente che beve…”.
«Molti romanzi parlano di alcol e hanno a che fare con l’acqua. A questo proposito un altro libro molto bello che poteva stare benissimo nella sestina è “Epigenetica” di Cristina Battocletti, un’autrice graffiante, con una voce molto originale».
Ma davvero un Premio tradizionale come lo Strega può far emergere voci singolari?
«La singolarità è una caratteristica a cui teniamo moltissimo. Credo che un po’ tutto il Comitato abbia cercato di valorizzare anche libri sghembi e magari imperfetti e perfino con dentro cose sbagliate, che però ti fanno capire che quello è un libro vivo, non lavorato a tavolino da un editor. Un libro che non funziona del tutto o che ti disturba è alla fine un libro che lascia qualcosa. La letteratura non è un prodotto».
Però, la standardizzazione della scrittura è evidente. Tra romanzi forgiati su un gusto internazionale. E orientati da editor che non amano eccessi e scomodità.
«E questo va bene, per ampliare la base dei lettori italiani, che sono pochi. Lo Strega deve valorizzare cose diverse, guardare altrove, premiare chi ha coraggio di cambiare, di mettersi in discussione, di fare libri non attraenti o di facile lettura. Non ci piace chi si accontenta, chi si ripete, apprezziamo anche che uno scrittore che scrive da anni trovi un’intensità che gli era mancata, così com’è bello che ci siano persone giovani che ti sorprendono».
E quindi chi vincerà?
«Non posso fare pronostici. Ma io sto sempre dalla parte delle scrittrici».