Donna elegante, sfrontata, colta ed eccessiva, è morta il 15 settembre 1994. Nella sua pur breve vita, ha reso il sesso una bandiera di indipendenza. E con la sua nudità è diventata un'icona senza tempo, ben oltre il porno

Un universo tattile, indefinibile, inarrivabile, ma alla portata di tutti. Questo è stato Moana Pozzi, donna libera, difficile, intelligente e oltraggiosamente casta, che si è mossa nel mondo in uno spazio troppo breve per non essere rimpianta. Ma a definirla meglio sono le parole che non la rappresentano, fili di negazioni che sono scivolati addosso a quel corpo da sirena e dal nome che richiama l’oceano. 

 

Non è stata una pornostar Moana Pozzi, perché non era il porno ad abitarle dentro ma la vita. Lei era il sesso, che ispirava con un solo tocco di rossetto rosso, in quelle scollature infinite, profonde sino al centro della terra. E il sesso la accompagnava, con quell’innocenza scandalosa che lastricava il suo cammino tenendola per mano sin dall’infanzia. «Quando ho avuto le prime esperienze sessuali ho sentito che non c’era niente di male, non provavo sensi di colpa e non capivo perché Dio avrebbe dovuto proibire di fare l’amore», diceva con quella voce pacata, profonda e di una sensualità estrema. 

 

Pudica e puttana, Moana è morta di un male cattivo a Lione il 15 settembre del 1994, lasciando un vuoto mai più riempito di contraddizioni felici. Sfrontata, elegante e naturalmente erotica, aveva studiato dalle suore e scambiava pensieri e opere con Mario Schifano. Nata a Genova, educata con rigore, non ha mai smesso di coltivare una solida formazione culturale perché aveva capito sin da subito che rossetto e congiuntivo erano un’abbinata persuasiva. Così parlava quattro lingue e sfogliava Moravia e Apollinaire come fossero amplessi, sorseggiando una vita di cui non intravedeva un traguardo finale. 

 

La donna che si esibiva nuda in compagnia di un serpente con cui dividere il palco era la stessa iconica fata di programmi dedicati ai bambini, in una Rai in giacca e cravatta che ancora oggi non crede ai suoi occhi. Lei biondissima, in taffettà rosa, seduta con Fabio Fazio in un’edizione di “Jeans” si rivolgeva ai figli mentre i genitori montavano la rivolta. Casalinghe armate di mestoli scrissero ai piani alti di viale Mazzini e il risultato fu una pubblicità sontuosa piovuta dal cielo. «Non pagheremo il canone», tuonavano le Federcasalinghe, protestando contro un qualcosa, il mondo del porno, che non potevano conoscere se non per sentito dire, popolo guardone che lanciava il sasso e nascondeva la mano per obblighi di morigeratezza, eco lontana di luoghi misteriosi e depravati ma soprattutto chissà. Non c’era internet, non c’erano motori di ricerca, non c’erano scambi di file nelle chat private. Il porno era roba da cinema, seduti in poltrone di velluto sbucciato per cui si pagava un biglietto, strappato all’ingresso da maschere desnude. 

 

Per Moana il sesso era il suo linguaggio, e gli anni Ottanta lo hanno ascoltato, ricco, tante parole, mai un tono sopra le righe e tanta, tantissima pelle, sempre. La racconta con un amore accurato Francesca Pellas, giornalista, nel suo saggio “Tutto deve brillare. Vita e sogni di Moana Pozzi” (Blackie edizioni) che accavalla testimoni e impressioni, frutto di uno studio matto e disperatissimo cucito con dovizia. «Moana rimane un mistero. Troppo intelligente, troppo bella, troppo elegante per fare la pornodiva. Che segreto nasconde il sorriso lunare della ragazza di Genova? Moana è stata una maestra di libertà: ha usato il suo corpo per fare una rivoluzione che partiva dalla cosa più splendente e preziosa che possedeva, ovvero la sua mente. Tanti di quel corpo hanno visto tutto, eppure lei rimane inconoscibile come un punto di domanda in agguato sul fondo dell’oceano». E da qui indaga, chiede, cerca risposte Pellas, sommando in dieci capitoli filosofia ed essenza, testimoni e ricordi, «sperando di renderle giustizia e anche di prendere ispirazione per vivere un po’ più liberi e felici».

 

 

 

 

 

La strana vita di questa sirena nata libera, che toccava tutto, esplorava tutto, per non perdere neppure un attimo, con l’ingordigia di chi ha paura che possa finire troppo presto, arrivò anche alla politica. Moana eredita il Partito dell’amore riuscendo a fare propria un’istanza già percorsa da Cicciolina, ma prende quella bandiera e la indossa, come un abito. «Usando me stessa e la mia popolarità ho deciso di battermi insieme a voi per dare un piccolo contributo alla costruzione di un mondo migliore». Libertà, periferie, diritti arcobaleno, Moana Pozzi socchiudeva i suoi occhi azzurri alle telecamere delle tribune politiche, per il gusto di aggiungere una tessera al suo puzzle. D’altronde, diceva, «mi ritengo esperta di sessualità e quindi di comportamenti umani. Chi più di me può conoscere i bisogni della gente». Il porno è di tutti, sosteneva Moana e così diventava programma politico. Lo spiegava senza giri di parole, come nello Speciale Elezioni andato in onda su Telemontecarlo il 20 marzo 1992: «Io ho sempre fatto politica con i miei spettacoli: per me non sono mai stati soltanto un modo per esibirmi o per guadagnare denaro, ma è sempre stata una forma di protesta contro la mentalità borghese della gente, che mi ha infastidita fin da quando ero ragazzina. In memoria di quello, ho continuato a portare avanti il mio discorso facendo appunto gli spettacoli, i film, e riuscendo clamorosamente a entrare nelle case dove le persone non avrebbero mai pensato che sarei potuta entrare. Perché? Perché la pornografia, questo tipo di sesso così chiaro, è parte di ogni persona, dei sogni di ogni persona, della vita di ogni persona».

 

Amava cucinare, mangiare, il sesso, i soldi da toccare, i gioielli da indossare. Tutto era fisico per Moana, tutto era corpo, quel corpo in cui ha abitato con agio, che mostrava con gusto, che esibiva con orgoglio, segnato da tre tatuaggi, un colibrì sul piede sinistro e due draghi, uno nero sulla nuca e uno verde sul polso. «Masturbarsi fa bene alla salute e scarica le tensioni. Di solito mi tocco quando sono sola a casa, distesa sul letto o in bagno, nelle toilette di treni e aerei, viaggiando in macchina o sul set dei miei film porno. Mi eccita soprattutto farlo davanti a un uomo che mi piace».

 

E a quel corpo riusciva a rimandare ogni cosa, dettaglio, sentimento, come un accogliente, smisurato abbraccio. E dietro quel corpo luminoso Moana era e non era, viveva di luce e proiettava ombre, nascondendo misteri irrisolti, sorprese inaspettate, colpi teatrali. Come il fratello non fratello forse figlio, chissà, non chiedete, non chiedetemi. Come la sua presunta appartenenza ai servizi segreti, su cui parole sono state lanciate al vento e alcune persino raccolte. E come la sua immortalità. Impossibile, dicevano alcuni, e dicono ancora oggi, che Moana non ci sia più. Una presenza immanente, che non si può recidere, una moltitudine di vite capaci di accavallarsi senza tensioni, fili sparati tenuti insieme dal nodo della fisicità assoluta, perché se proprio hai bisogno di una copertura, difficile trovare qualcosa di meglio del porno.

 

Jonathan Bazzi, si legge nel saggio di Pellas, si interroga su questo: «Si mette a fare il porno per calcolo o sfida, piacere o strategia, giocando un gioco di cui sembra non percepire nessun pericolo: ha sempre saputo di essere più grande di quelle scene, di quegli amplessi a favore di camera?».

 

Giocava il suo gioco, Anna Moana Rosa Pozzi, con le sue regole. Uno schema in cui nulla all’apparenza tornava, nelle mille sovrapposizioni, righe contorte e parallele. Ma alla fine, il disegno che ne veniva fuori era bellissimo.

 

A lei sono stati dedicati libri, film, speciali, documentari (ineccepibile “Essere Moana” diretto da Alessandro Galluzzi, Flavia Triggiani e Marina Loi). Nel 2019 diventa una Morgana nel bestseller Mondadori in cui Michela Murgia e Chiara Tagliaferri raccontavano storie di donne “strane, difficili, non convenzionali e persino stronze”. E a lei Sabina Guzzanti regala un indimenticabile clone satirico, negli Avanzi di Rai Tre. «Era bellissima. Io un giorno mi avvicinai per parlarle, tanto per fare conversazione. E lei mi guardò dall’alto in basso come si guarda una nullità. Poi se ne andò senza dire una parola», ha raccontato Guzzanti, e da qui si capisce tutto il fastidio che provava Moana per quell’imitazione sgradita, quell’altra sé mai amata che in paillettes ammoniva Pierfrancesco Loche. «Per imitare una persona bisogna dire delle sciocchezze altrimenti chi ride», commentava. «Ma io non dico sciocchezze, non le ho mai dette in vita mia». Eppure, c’era in quella parodia da piccolo schermo, che cavalcava il tormentone “Ti tocchi, quanto ti tocchi” un’essenza centrata, quella della maestrina, che metteva in riga con registro e penna rossa, pronta ad elargire voti con severità. Come poi fece sul serio nella “Filosofia di Moana”, l’autobiografia in cui giudicava i suoi amanti come fossero compiti in classe. Craxi 7 e mezzo, Renzo Arbore 6, non molto fantasioso e forse un po’ timido. Luciano De Crescenzo «si vergognava di essere stato scoperto mentre faceva l’amore, probabilmente temeva di essere considerato un intellettuale poco serio! Voto 7. E Beppe Grillo, genovese anche lui, che a letto ci sapeva fare, 7-».

 

Di Moana Pozzi oggi, resta quell’immagine di anomala compostezza, bagnata di solarità, i suoi bianchi, i suoi rossi sfrontati, quell’entusiasmo tradotto in colore, segni di un evidenziatore sulle pagine che si scombinano al vento del contrasto col suo mestiere sbandierato con orgoglio. E resta quel senso di malinconia estrema, che arrivava puntuale in coda a ogni sua riflessione in pubblico. Ha sempre vissuto il presente Moana, perché il domani faceva fatica, il deterioramento fisico le faceva orrore. «Vorrei essere eterna, vorrei non finire mai», diceva a Gigi Marzullo nella notte mentre i sogni la rendevano felice più di una vita da sognare. E quando la sua luce si spense, nessuno volle crederle, come le leggende venute dalle onde.