Letteratura
Siamo donne e pure un po' bastarde. Colloquio con Rossana Campo.
Il legame tra amiche cinquantenni. Le parole, il sostegno, il sesso, le relazioni fluide. E il lavoro sul linguaggio. Tutto nel nuovo, elettrico romanzo della scrittrice: "Non mi è mai importato decidere se fossi etero, lesbica, bisessuale".
Sono donne tra i cinquanta e i sessanta che provano a «invecchiare diversamente», come suggerisce l’epigrafe presa in prestito da Goliarda Sapienza. Parlano, parlano, condividono, si sostengono. Sono amiche-sorelle. Non omettono alcunché delle loro vite incasinate, si raccontano l’una all’altra con libertà e impudenza, rivendicano il desiderio di sentirsi «completamente vive». Riflettono sulla loro vita sentimentale, non intendono rinunciare al sesso e più in generale alla passione, alle passioni. Rossana Campo, nel titolo del nuovo, elettrico romanzo, le chiama “Libere e un po’ bastarde” (Bompiani). Le chiedo perché, nella sua casa romana a un passo da Santa Maria Maggiore. Ride: «Come a dire: non siamo nonnette, siamo molto vitali. Mi sono ispirata a una frase che ho letto in un libro intitolato Pleasure Activism: “Mi sento ancora una vecchia bastarda”».
Le sue donne “libere e un po’ bastarde” fanno paura?
«L’età che racconto è quella in cui una donna ancora oggi fatica a dire a voce alta che non vuole fare a meno della passione, che non vuole rinunciare al sesso: passa subito per la vecchia strega. Guarda Madonna con i suoi sessantasei anni e un fidanzato nemmeno trentenne: non viene certo giudicata come sarebbe giudicato un coetaneo maschio. Anzi, ai maschi è concesso desiderare fino ai novanta e oltre! Penso a un lontano articolo in cui Rossana Rossanda cercava di rompere il tabù sulla sessualità degli anziani: la cosa incredibile è che parlava da cinquantenne…».
Come descriverebbe Betti la sceneggiatrice, Alice, Gloria e le altre?
«Come mie coetanee che a sessant’anni si chiedono se davvero si possa vivere senza desiderio, senza fare cazzate, se davvero si è costrette definitivamente a crescere. Queste donne sbadate, confuse, vitali ogni tanto si affacciano su qualche abisso, lo esplorano, cercando di non caderci dentro».
La “sorellanza” delle sue protagoniste colpisce per come si supportano a vicenda e si confrontano senza filtri. Occupano per intero la scena. A un certo punto mi sono chiesto: i maschi che fine hanno fatto?
«In altri romanzi lasciavo le mie “personagge” parlare molto di uomini. In queste pagine oggettivamente non sono il centro della conversazione. Non ho smesso di frequentare gli uomini e non ho niente contro di loro, ma mi interessava raccontare un microcosmo femminile in cui le donne prendono come punti di riferimento quasi esclusivi sul piano affettivo, erotico, simbolico altre donne. D’altra parte i laboratori di scrittra che faccio sono frequentati praticamente solo da donne, e mi pare giusto proporre una bibliografia fatta tutta di libri scritti da donne. I libri degli uomini hanno avuto abbastanza spazio, no?».
Il sesso è vissuto senza etichette e confini, le sue “personagge” non sono preoccupate di definirsi. Ma questo è tipico dei suoi romanzi da tre decenni, dall’esordio del 1992. Potrebbe rivendicare di avere precorso i tempi.
«Da ragazza leggevo appassionatamente autrici come Anaïs Nin, Simone de Beauvoir, Colette e Virginia Woolf. Il mio mito era ed è Gertrude Stein! Queste autrici hanno popolato il mio mondo immaginario. E nel loro mondo concreto mostravano di vivere come del tutto normale l’essere sposate con un uomo e contemporaneamente avere relazioni intellettuali ed erotiche intensissime con altre donne. Vivevo in provincia, ad Albissola, in Liguria, e quando mi è capitato di avere storie con uomini e donne non l’ho vissuta come una scelta coraggiosa o eccentrica. La relazione più importante e duratura è stata con un uomo più grande di me, Nanni Balestrini, ma non me ne è mai importato niente di decidere se fossi etero, lesbica, bisessuale. “Tutto questo è molto queer!” mi sono sentita dire di recente dalle amiche di un’associazione lesbica di Bologna. Vedi, ero queer anzitempo e non lo sapevo!».
Quando uscì “In principio erano le mutande”, c’è chi ebbe da ridire. Ancora qualche tempo fa ho trovato una recensione che lo definiva scandaloso.
«Qualcuno scrisse che era un libro furbetto, che voleva provocare. Ma la mia intenzione non era di scandalizzare l’Italietta. Raccontavo ciò che avevo vissuto, e se il romanzo ha avuto tanto successo è perché forse tante e tanti si sono riconosciuti. Hanno trovato una voce per ciò che magari allora non era facile confessare».
Lei lo ha fatto scegliendo un linguaggio diretto, portando anche brutalmente il parlato sulla pagina.
«Ogni tanto, presa dai dubbi, chiedevo alla mia amica Giovanna: ma lo scrivo proprio così? E lei: e come vuoi scriverlo?».
È rimasta fedele nel tempo a questa opzione stilistica.
«La cosa che mi ha sempre interessato è il lavoro sul ritmo, sul linguaggio. Portare sulla pagina l’energia del parlato. Quando ho iniziato a pubblicare c’era ancora l’idea che la lingua della letteratura fosse o dovesse essere una lingua un po’ alta – quella che si apprende a scuola, con il congiuntivo giusto, i tempi verbali a posto. Gadda, la lezione della neoavanguardia, Sanguineti, Celati, Tondelli, Busi hanno aperto altre strade. Hanno fatto soffiare un vento diverso nella scrittura letteraria, che rischia sempre di essere un po’ vecchia, obsoleta, ammuffita. Per ottenere questo tipo di lingua, all’esordio, mi riferivo ai parlanti che stavano intorno a me. Questo non significa che sbobinavo cassette registrate, perché una scrittura che abbia efficacia dev’essere sempre una rielaborazione. Ma il fatto è che non mi interessava mostrare il mio pedigree di studentessa dell’università di Genova, di allieva di Sanguineti; mi interessava raccontare una storia con un certo tono di voce».
Che effetto le fa l’odierna – debordante e quasi spaventosa – quantità di romanzi autobiografici e memoir? Userebbe la definizione di autofiction per il suo lavoro?
«Non lo so. So che all’esordio non sono stata a pensare “adesso vi racconto le mie storie”. Per molti libri non ho dato il nome alla mia eroina, proprio perché mi piaceva questo gioco ambiguo: il personaggio che dice io potrebbe avere diversi tratti dell’autore ma non è l’autore. In tutti i miei libri, a parte quello su mio padre, dove mi interessava confrontarmi con questa figura in modo più diretto, ci sono caratteristiche mie sparse nell’identità di ogni personaggia e non è importante sapere quale avventura emotiva o di letto sia reale e a chi appartenga».
«Meglio il nucleare dell’autofiction scritta male», dice una canzone recente dei Baustelle. È un elogio della consapevolezza stilistica.
«Annie Ernaux o Emmanuel Carrère hanno in effetti fondato un’opera sui fatti loro, ma sono andati al di là in virtù del lavoro sullo stile. La pura testimonianza non è interessante, se non in quanto tale, ma forse non si allontana troppo da ciò che è stato prodotto da decenni di tv del dolore o da ciò che chiunque racconta sui social. Io resto sempre un po’ stupita dalle persone che postano foto dal letto di ospedale, e non per moralismo, ma perché mi chiedo: a che serve? Che cosa ottieni? C’è il segno della tua sofferenza in un post che si confonde tra quelli sulle guerre, un’immagine di Gaza, una dall’Ucraina, tutto si perde nel cazzeggio, un like e passi ad altro».