Atleti e pregiudizi
Quel gioco sul corpo degli altri
Insulti razzisti durante una partita di basket a Rimini, è solo l'ultimo episodio di discriminazioni nello sport. La scrittrice Uyangoda: "Urgente una legge sulla cittadinanza"
Il giorno dopo la Prima della Scala, lo scorso 8 dicembre, c’è stata un’altra prima nella seconda Scala di Milano, quella del calcio. Le squadre femminili di Milan e Inter si sono affrontate per la prima volta a San Siro. A portare il derby sull’1-1 finale è stata una rete di Nadia Nadim. Nata in Afghanistan, ha imparato a giocare a calcio nel cortile di casa, a Herat, prima che la vita la costringesse a dimenticarsi del pallone. Il primo glielo aveva regalato suo padre, poco dopo è stato giustiziato dai talebani. Con la madre e le quattro sorelle è scappata dal Paese, stipate in un camion hanno raggiunto la Danimarca. Ha ritrovato il pallone nel campo profughi vicino Aarhus e non l’ha più abbandonato. Oggi gioca nel Milan, è una stella del calcio internazionale e non ha intenzione di fermarsi. Nel 2022 si è laureata in medicina ed è ambasciatrice Unesco per l’istruzione delle ragazze. «Penso che il calcio sia uno strumento utile per cambiare il mondo, ogni volta che ne ho l’opportunità cerco di dare il mio contributo», ha dichiarato in un’intervista.
Spesso si guarda all’impegno sociale degli sportivi con scetticismo, sminuendone la portata. Ma i corpi in movimento che diventano capitale per aziende, sogni collettivi e poster in cameretta hanno sempre un significato politico. Lo sostiene la scrittrice Nadeesha Uyangoda, autrice di “Corpi che contano”, edito da 66thand2nd: «Mi affascinava affrontare il tema della memoria e della distanza tra l’esperienza del corpo, che è molto concreta, e l’esperienza mentale, che è in qualche modo fallace. Diamo sempre più importanza ai ricordi del cervello, invece è tramite la coscienza del corpo che quest’ultimo diventa il campo politico per eccellenza. Di recente si è parlato tanto dei corpi delle donne e delle loro libertà. Ecco, per me libertà e paura coincidono con il corpo».
La pelle degli atleti di successo è quasi sempre oggetto di dibattito pubblico. Secondo l’europarlamentare Roberto Vannacci, una persona che ha i tratti somatici tipici del centro Africa non rappresenta la stragrande maggioranza degli italiani, che invece sono di pelle bianca. «La fallacia di questa dichiarazione sta nell’assunto sull’esistenza di una fantomatica fisicità maggioritaria riconoscibile immediatamente come italiana», spiega Uyangoda: «Chi sono, gli italiani, chi decide cosa li rappresenta e cosa no?». Per l’autrice, l’idea di italianità è un gioco di esclusione che crea «uno spazio comodo in cui riprodurre un archivio tanto consolidato quanto xenofobo». Anche quando il successo sportivo si fa strumento di emancipazione, le sue dinamiche riproducono le storture della società. All’indomani della storica vittoria sui 100 metri di Marcell Jacobs alle Olimpiadi di Tokyo, si era tornati a parlare di ius soli sportivo, «e già questo è un cortocircuito visto che Jacobs, di madre italiana, è italiano per ius sanguinis», nota la scrittrice: «Lo ius soli sportivo può aiutare, ma è una misura palliativa. Ciò di cui avrebbe davvero bisogno lo sport è una riforma della legge sulla cittadinanza».
Il passo da campione acclamato a capro espiatorio diventa brevissimo. Agli atleti razzializzati non è concesso esprimere una critica nei confronti della nazione che rappresentano senza incappare nel reato di leso patriottismo. Quando Paola Egonu, dopo la medaglia di bronzo ai Mondiali di volley del 2022, ha detto di voler lasciare la Nazionale, perché stanca di persone che «chiedono ancora se sono italiana», parte della stampa ha reagito svalutando le sue rimostranze sulla base dei «milioni che guadagna». Secondo Nadeesha Uyangoda, «questo è un meccanismo che giustifica il razzismo quando chi lo subisce è percepito come privilegiato. È successo anche al portiere del Milan Mike Maignan, quando dagli spalti dello stadio di Udine ha sentito ululati e versi da scimmia già dal primo rinvio».
Lungi dall’essere trascurabile, la questione della classe in “Corpi che contano” si lega a doppio filo a quella razziale e di genere, in un’analisi complessiva di un mondo dello sport che «ha smesso di spiegare noi e ha cominciato a spiegare il capitalismo». Il diritto a esistere in uno spazio antieconomico, come la pratica sportiva, è un privilegio. Nel capitolo dal titolo “Tutto il tempo che abbiamo perso” l’autrice racconta come, nei suoi primi anni in Italia, gli sport fossero un modo per adattarsi alla società. A rendere possibile questo adattamento è «l’elemento più borghese in cui mi sia mai imbattuta: il tempo libero. Dagli immigrati ci si aspetta che non ne abbiano», continua, «che trascorrano ogni minuto della loro esistenza a lavorare, spesso si usa la parola risorse».
È successo a Monfalcone, dove un articolo del regolamento comunale vieta di giocare a cricket in «spazi non idonei». Ne ha fatto le spese la comunità bengalese, costretta a giocare fuori città. Il provvedimento è stato introdotto dall’ex sindaca Anna Maria Cisint, esponente della Lega, oggi europarlamentare, in una campagna contro la cosiddetta islamizzazione della città. Il cricket nasce in Inghilterra e con l’Islam, va da sé, non ha nulla a che fare, ma è anche il primo ricordo legato allo sport di Nadeesha Uyangoda e nel subcontinente indiano è una religione: «È interessante notare come il cricket, da espressione della dominazione coloniale, sia finito per diventare simbolo di alcuni ex territori colonizzati. Poter continuare a praticarlo aiuta a conservare una memoria familiare che altrimenti andrebbe perduta». Se la vita può sbiadire i ricordi di ciò che un tempo era familiare, la memoria del corpo non sbaglia. Come si calcia bene un pallone, una volta imparato, non lo si dimentica, che sia a San Siro, in un campo profughi o nel cortile di casa.